Fabio Ecca*
Abstract
Nell’immaginario collettivo la figura di Gino Girolimoni ha rivestito, e riveste tutt’ora, un ruolo fondamentale, essendo allo stesso tempo sinonimo di pedofilo e simbolo delle ingiustizie frutto della rabbia popolare e di un “populismo” ante litteram. Lo stesso non si può dire tuttavia dell’altro co-protagonista di quegli atroci eventi. Giuseppe Dosi è stato infatti il poliziotto che contribuì alla piena assoluzione penale di Girolimoni e, per questo, venne perseguitato dal fascismo fino al 1940. Da quell’anno e fino al 1945, quando venne definitivamente reintegrato nella polizia, Dosi è stato uno dei protagonisti della liberazione di Roma, il principale artefice del salvataggio della documentazione su via Tasso, un fondamentale testimone d’accusa dei primi processi per i crimini di guerra ed uno dei maggiori collaboratori italiani del Comando Alleato operativo in Italia. Non a caso, negli anni successivi gli stessi angloamericani propiziarono la sua nomina a direttore per l’Italia della neonata INTERPOL. Questo contributo vuole analizzare e ricostruire per la prima volta l’attività e l’operato di Giuseppe Dosi durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. A tal fine, oltre alla scarsa bibliografia presente, tra cui l’autobiografico Il Mostro e il Detective, verranno consultati i fondi del Ministero dell’Interno ‒ in maniera particolare Direzione Generale AAGG-Fascicoli personali e Gabinetto Archivio Generale Rsi (1926-1946) ‒ conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato ed il fondo “Giuseppe Dosi” presso il Museo Storico della Liberazione di Roma. Tale contributo vuole quindi contribuire a ricostruire la storia della Seconda guerra mondiale attraverso l’originale punto di osservazione offerto dall’operato di Giuseppe Dosi attraverso cui riuscire a comprendere alcuni aspetti politici e socio-culturali del periodo 1940-1945 in Italia.
*Università di Roma Tre
How to cite this article:
Fabio Ecca, “La Seconda guerra mondiale di Giuseppe Dosi: dall’epurazione fascista all’Interpol”, Occupied Italy 1943-1947, vol. 1, issue 1 (September 2021): 128-143.
DOI: 10.53258/ISSN.2785-261X/OI/01/202
Link: http://occupieditaly.org/it/la-seconda-guerra-mondiale-di-giuseppe-dosi-dallepurazione-fascista-allinterpol/
Introduzione
Comprendere la storia di Roma durante la seconda guerra mondiale potrebbe risultare un’attività complicata se non si ricostruisce l’operato degli uomini e delle donne che allora animavano la capitale d’Italia. Centro di comando del fascismo al potere e fulcro di ogni decisione politica, burocratica e bellica, dove giornalisti, politici, dirigenti ministeriali, prelati di ogni ordine e grado, uomini d’affare, esponenti di società più o meno segrete costituivano una sorta di “sottobosco” del potere. A determinare tale situazione straordinaria era sicuramente il fatto che nessuna altra città italiana raccoglieva allo stesso tempo ministeri ed uffici pubblici e privati di ogni genere, portando i fatti avvenuti a Roma ad assumere spesso una valenza nazionale. Comportava anche la presenza di personalità che, pur rimanendo in ombra rispetto alla narrazione dei grandi avvenimenti, offrono una originale chiave di lettura degli stessi eventi. È il caso, ad esempio, di Giuseppe Dosi, già componente di rilievo degli uffici di pubblica sicurezza romana e successivamente perseguitato dal regime fascista, che trova proprio durante la Seconda guerra mondiale la propria occasione di riscatto. La sua parabola personale permette infatti di individuare alcuni dei principali tratti peculiari della capitale d’Italia durante il secondo conflitto mondiale. Tale studio, tuttavia, non può non prescindere dalla ricostruzione, seppur sommaria, della sua vita e della carriera professionale.
Il mostro e il detective
Nato a Roma il 28 dicembre 1891, Dosi entrava in polizia nel 1913.[1] Riusciva a distinguersi in seno al corpo di pubblica sicurezza per la sua cultura, la poliedricità delle passioni coltivate[2] e l’intraprendenza. Agli albori degli anni Venti era considerato tra i più promettenti commissari di polizia in Italia. La perfetta conoscenza delle lingue – tra cui l’inglese, il francese e il portoghese – gli aveva inoltre permesso di ricevere diversi incarichi all’estero. Non è un caso che nel suo foglio matricolare, già nel 1922, risultavano incarichi a Vienna e Madeira.[3] In quest’ultima trasferta veniva coinvolto in un tragico incidente ferroviario[4] che gli causava numerose ferite, tra cui una alla testa.[5] Non parrebbe tuttavia che l’incidente avesse compromesso il rapporto tra Dosi e gli organi di pubblica sicurezza. Infatti questi ultimi, una volta guarito, gli affidavano la delicata indagine, con importanti risvolti politici, sullo «strano incidente» accorso a Gabriele D’Annunzio, poche settimane prima della marcia su Roma.[6] La carriera di Dosi sembrava dunque procedere senza impedimenti. La sua successiva chiamata in servizio presso il gabinetto del sottosegretario agli Interni Aldo Finzi appare dunque essere stato un riconoscimento e, allo stesso tempo, un attestato di stima e fiducia nei suoi confronti.[7]
In quegli stessi anni, tra il 1924 e il 1927, i quotidiani iniziavano a dare notizia dei misteriosi rapimenti a Roma di almeno quattro bambine, le quali venivano ritrovate morte dopo poche ore.[8] Tutti i quotidiani dell’epoca si erano occupati di questi delitti[9] e avevano contribuito a costruire un diffuso clima di timore e paura nella popolazione, non solo romana. Trasmettevano il messaggio che un mostro, rapitore, seviziatore e omicida, si aggirava indisturbato per le strade della città.[10] Alla diffusione di tale notizia avevano tuttavia contribuito anche i vani sforzi della polizia[11], i cui fallimenti avevano ulteriormente agevolato la crescente sfiducia dei romani verso le istituzioni e il fascismo.[12]
I casi di rapimenti e omicidi sembravano, uno dopo l’altro, destinati a rimanere irrisolti fino a quando, il 9 maggio 1927, l’Agenzia Stefani riportava la notizia dell’arresto del presunto “mostro di Roma”.[13] Il nome di Gino Girolimoni, mediatore di cause dalla vita libertina, veniva fin dal primo istante additato dai giornali non come sospettato, ma come sicuro colpevole.[14] Quando invece l’8 marzo 1928 il giudice istruttore Rosario Marciano decideva di prosciogliere da ogni accusa Girolimoni, ciò non avrebbe suscitato la stessa attenzione mediatica.[15]
È in questa occasione che le strade di Girolimoni e Dosi sembrano essersi incrociate. È opportuno tuttavia utilizzare il condizionale, data la divergenza delle fonti consultate. La memorialistica redatta da Dosi, e quella successivamente da questa influenzata, parrebbero attestare il contribuito determinante dell’ex componente di pubblica sicurezza sia nello scagionare Girolimoni che nell’individuare nel pastore anglicano Ralph Lyonel Brydges il vero colpevole dei rapimenti ed omicidi delle bambine.[16] La documentazione archivistica, tuttavia, non preserva nessuna memoria ufficiale che attesti la partecipazione di Dosi alle indagini relative agli omicidi delle bambine o all’assoluzione del mediatore di affari. È probabile quindi che il vice questore avesse partecipato solo ufficiosamente alle investigazioni e non in maniera continuata, anche perché la sua presenza a Roma è attestata solo nel settembre 1927. Tra il 1924 e il 1927 egli, inoltre, si era occupato prevalentemente delle indagini relative al cosiddetto “problema di Capri”, ovvero al perpetuarsi di episodi di pederastia nell’isola campana.[17]
Le persecuzioni nel ventennio
È pur vero tuttavia che, successivamente all’assoluzione di Girolimoni, Dosi iniziava a subire i primi provvedimenti che denotano un cambio di atteggiamento delle autorità mussoliniane nei suoi confronti.[18] Pagava probabilmente il suo impegno nell’accusare, sia per i fatti di Capri che per quelli di Roma, un cittadino di un paese con cui il governo fascista intendeva consolidare i rapporti, oltre all’essere inviso a molti suoi colleghi. Veniva infatti trasferito dal prestigioso incarico a Roma ed inviato a Cortina d’Ampezzo e, da qui, ad una serie di altri uffici di pubblica sicurezza lontani dalla capitale. In questo suo peregrinare obbligato, tuttavia, egli perseverava nel continuare ad indagare sul pastore Brydges, almeno fino a quando non apprendeva la notizia della sua completa assoluzione.[19] La sua ostinata convinzione della colpevolezza del pastore inglese, i trasferimenti subiti, la perdita della figlia Gabriella e la leggerezza con cui sbandierava accuse di incapacità alle forze dell’ordine e al ministero dell’Interno avevano inoltre probabilmente contribuito alla sua esclusione dal concorso indetto dal ministero dell’Africa italiana per alcuni posti di direttore di colonia.[20]
È in questa fase della sua vita che Dosi decideva di abbandonare l’intero corpo di polizia, non prima tuttavia di presentare una memoria autobiografica, destinata a formare un libro intitolato Storia di un commissario di polizia, «destinato solo a colleghi ed amici».[21] È quello che lui stesso avrebbe successivamente definito il «libro del diavolo», la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, peraltro già colmo, di ostilità nei suoi confronti del regime fascista. In questo volume, mai entrato in commercio, ricostruiva la sua vita e carriera, soffermandosi a lungo sulla vicenda del «mostro di Roma» e non lesinando, soprattutto, feroci critiche a numerose personalità fasciste, in primis Bocchini.[22] Inutile sottolineare che il libro veniva sequestrato e Dosi veniva prima dispensato dal servizio[23] e poi, un mese dopo, arrestato.[24] Le accuse contestategli – vilipendio dei superiori, rivelazione di notizie e circostanze riservate e segrete e l’essersi occupato in maniera arbitraria di vicende politiche e giudiziarie[25] – lo portavano prima nel carcere romano di Regina Coeli e poi nel manicomio provinciale di Santa Maria della Pietà, dove rimaneva ben diciassette mesi.[26]
Giuseppe Dosi durante l’occupazione nazista di Roma
Liberato nel gennaio 1941, Dosi ritornava a vivere a Roma, seppur privato del lavoro in polizia. Riusciva ad ottenere un impiego presso l’Eiar, l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche, dove veniva assunto come addetto alla sicurezza.[27] È tuttavia a partire dall’8 settembre 1943[28] che l’ex commissario rilanciava definitivamente la propria carriera.
Ne abbiamo contezza soprattutto in una memoria presentata nel maggio 1946 in cui lo stesso Dosi riassumeva quanto fatto nei nove mesi di occupazione nazista di Roma. Egli sosteneva che già il 9 e il 10 settembre era stato costretto ad affrontare un primo, importante problema provvedendo tempestivamente a rendere inutilizzabili gli impianti dell’Eiar che i tedeschi volevano porre sotto il proprio diretto controllo.[29] L’ex esponente di polizia risulta essere stato anche tra i testimoni del “sabato nero” del ghetto di Roma, durante il quale parrebbe essersi adoperato per salvare dalla deportazione del 16 ottobre 1943 alcune donne.[30] Aveva inoltre ispezionato i campi di concentramento di Mantova, Verona, Trento e Bolzano, dove erano recluse decina di migliaia di ufficiali e militari italiani, molti dei quali gli avevano consegnato clandestinamente la corrispondenza da consegnare alle famiglie. Aveva rintracciato e salvato alcuni rampolli della nobiltà romana, permettendo loro di trovare un nascondiglio sicuro oppure di farli ricongiungere con i propri cari. Infine, sempre secondo quanto da lui asserito, era riuscito anche ad introdurre viveri nella caserma di Ostia dove erano detenuti gli ufficiali della divisione Piave.[31]
Non sappiamo se quanto da lui asserito corrisponda alla realtà ma, ad ogni modo, tali eventi gli erano serviti soprattutto per tessere una nuova rete relazionale, tra cui si annoveravano le famiglie nobiliari a cui aveva salvato i rispettivi figli. Il loro contatto gli sarebbe stato di particolare aiuto in quanto Rodolfo Raoul Chiodelli, precedentemente amministratore delegato dell’Eiar e poi suo direttore generale, si sarebbe successivamente adoperato, presumibilmente per riconoscenza, per evitare il licenziamento dello stesso Dosi, dopo che questi aveva rifiutato il trasferimento a Torino,[32] e propiziare il suo impiego presso la direzione compartimentale dell’Eiar di Roma.[33] Una parte delle istituzioni e personalità fasciste, dunque, sembrava essere disposta e voler riabilitare l’ex poliziotto. D’altra parte, non si spiega altrimenti la decisione dell’8 aprile 1944 del Comitato per le pensioni privilegiate ordinarie che aveva espresso parere favorevole al riconoscimento del diritto alla pensione il già commissario di pubblica sicurezza.[34] Questo è da considerare un risultato straordinario, dato che tutte le altre analoghe e precedenti richieste erano state respinte.[35]
È innegabile ad ogni modo che tale cambiamento di comportamento delle istituzioni verso Dosi era soprattutto il frutto della pressione, costante e quasi asfissiante, da lui stesso esercitata sulle più alte cariche, sia di polizia che politiche.[36] Particolarmente interessante da questo punto di vista è la missiva, scritta lo stesso giorno in cui il Comitato gli riconosceva la pensione privilegiata, con cui l’ ex commissario capo di pubblica sicurezza si rivolgeva a Giovanni Travaglio, in qualità di vice-capo della polizia, per chiedergli di interessarsi della sua questione:
pressato sempre più dal bisogno, sono costretto a pregarVi nuovamente che vogliate cortesemente interessarvi in merito alle pratiche ho in corso presso codesta Direzione Generale […]. La pratica di pensione, lo scorso dicembre, scomparve dal Palazzo Viminale con tutti i documenti. […]. In questi tempi di difficoltà familiari e generali, Vi scongiuro di far provvedere in merito, considerando ogni circostanza del mio gravissimo patente caso con benevole interessamento.[37]
Al di là della costruzione di una nuova propria rete relazionale, Dosi si adoperava anche nell’occultamento di documentazione e macchinari utili ai tedeschi, tra cui alcune comunicazioni riservate naziste di propaganda politico-militare, nell’occultamento di soldati alleati, nella trasmissione di informazioni compromettenti e nell’assistenza ad alcuni processati dal Tribunale di guerra germanico all’indomani della strage di via Rasella.[38] È tuttavia il 4 giugno 1944, giorno della liberazione di Roma, che Dosi compiva il gesto che gli avrebbe permesso di realizzare il definitivo balzo in avanti nella propria carriera. All’arrivo degli Alleati nella capitale egli attuava quella che lui stesso avrebbe successivamente denominata la «operazione via Tasso».[39] L’ex commissario di pubblica sicurezza si recava infatti, nella mattinata di quel giorno, nei pressi dei civici 145 e 155 di via Tasso, dove lo Aussenkommando del Servizio di sicurezza delle SS (Sicherheitsdienst, SD), aveva stabilito la propria caserma e la relativa prigione,[40] proprio nel mentre il comando nazista terminava la precipitosa evacuazione. Tale abbandono propiziava l’immediato assalto e la vandalizzazione dell’edificio da parte della folla accorsa per liberare i prigionieri[41] e, in tali concitate circostanze, Dosi riusciva a salvare dai roghi numerosi documenti trovati o lanciati dalla finestra.[42] Tra queste carte vi era anche quella riportante l’elenco delle diciotto persone incaricate dai tedeschi di compiere atti di sabotaggio volti a rallentare l’avanzata alleata ed a compromettere i rapporti tra le truppe anglo-americane ed i romani.[43] È così che la consegna di tale pagina alle truppe entranti in città permetteva all’ex commissario di pubblica sicurezza di accreditarsi presso il generale Clark, di cui riusciva in poco tempo a conquistare la fiducia[44] anche grazie alla padronanza della lingua inglese.[45]
È possibile quindi sostenere che grazie a quel ritrovamento Dosi iniziava a vivere un nuovo capitolo della propria vita. Egli svolgeva infatti numerose attività per il comando alleato, presso il quale era accredito come traduttore, informatore e, soprattutto, special investigator. Il nome dell’ex commissario capo di polizia risulta inoltre nell’elenco dei testimoni nei processi avviati nel 1944-1945 contro soldati e ufficiali nazisti, tra cui Kappler, Maeltzer e von Mackensen, e tra i responsabili dei lavori della Commissione per l’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine.[46] Lo svolgimento di tali compiti gli permetteva non solo di ottenere la sospirata riammissione in servizio ma anche – tra i pochi italiani durante la Seconda guerra mondiale – la Medal of Freedom. Il 1° agosto 1946 scriveva infatti il Comando supremo del teatro mediterraneo d’operazioni che:
Giuseppe Dosi, Commendatore Dottore, Italian Civilian, for exceptionally meritorious conduct in the performance of outstanding services in the Mediterranean Theater of Operation from 6 June 1944 to 5 May 1945. Dottor Dosi’s loyalty, integrity, and selfless devotion to duty were of invaluable assistance to the Counter Intelligence Corps, U. S. Army. His broad experience and relentless efforts were responsible for the destruction of some of the enemy’s most prized intelligence organizations. The skill, understanding, and untiring efforts of Dottor Dosi contributed greatly to the security of the Allied military establishment and his conduct was in accord with the highest traditions of the military service.[47]
Si tratta di un riconoscimento che, tuttavia, va letto con attenzione, dato che non era motivato dall’auspicato riconoscimento della professionalità di Dosi ma, come esplicitato soprattutto nell’ultimo passaggio, dal fatto che il suo comportamento era stato all’altezza delle più alte tradizioni militari. È probabile che le autorità statunitensi avessero avuto bisogno di fare tale asserzione perché ritenevano che la posizione del loro collaboratore fosse precaria. A tal proposito, è possibile sintetizzare che nei mesi successivi alla liberazione di Roma l’ex commissario di pubblica sicurezza avesse la piena fiducia degli americani ma non quella delle istituzioni italiane. Ne fornisce testimonianza, involontariamente, Dosi stesso quando, il 9 novembre 1944, era costretto a rinnovare per la quarta volta l’istanza in cui chiedeva di essere riassunto in servizio come «commissario-capo di P.S.».[48] In questo stesso documento egli inoltre offriva una chiave interpretativa delle persecuzioni subite diversa da quella attinente allo scagionamento di Girolimoni in quanto asseriva che era stato perseguitato in quanto aveva
sollecitato […] “gerarchie” politiche fasciste ad intervenire a mio favore […]. La mia follia, ECCELLENZA, sta, se mai, proprio nell’aver dovuto prendere in parola il governo ed il regime fascista. E mi sono dovuto indirizzare al Ministro, con “memoriale riservato”, autobiografico, documentale, dove, trattandosi di Mussolini, è ben scusabile che io, allora, dovessi scrivere in una forma pseudo-letteraria propria degli… appassionati gregari, necessaria, nella fattispecie, per prevenire probabili addebiti di denigrazione e per controbilanciare la quantità delle documentazioni prodotte, costituenti un atto d’accusa e di legittima difesa.[49]
È possibile quindi sostenere che attorno alla figura dell’ex commissario-capo di pubblica sicurezza tra il 1944 e il 1946 vi erano due comportamenti antitetici: chi ne desiderava il rapido reintegro e chi, invece, continuava a diffidare di lui.[50] Non a caso, fin dalle settimane successive al giugno del 1944 Dosi era stato oggetto di voci, illazioni ed anche di una denuncia in cui lo si accusava di essere una spia nazista, un delatore dell’Ovra e anche un agente provocatore.[51] Non è dato modo di comprendere quanto di vero ci fosse in queste accuse, anche se è certo che colui che le aveva presentate era stato a sua volta precedentemente arrestato come malfattore. A differenza però di quanto avvenuto negli anni precedenti, le istituzioni italiane sembravano ora sostenere lo stesso Dosi, tanto che il 12 agosto 1944 l’allora neo presidente del Senato Pietro Paolo Tomasi[52] scriveva ad Ivanoe Bonomi per perorare proprio la causa del poliziotto. Quest’ultimo veniva presentato come «vittima di una spietata persecuzione da parte di autorità fasciste [per cui, ndr] […] ora il poveretto, che ha moglie e 4 figli, è costretto a vivere con la sola pensione di 956 lire mensili».[53] Similmente accadeva che il maggiore Floyd Snowden, comandante del Counter Intelligence Corps, un’agenzia di spionaggio dell’esercito statunitense, asseriva che «trattasi d’un distinto funzionario, abile, d’ottimi precedenti, che ha reso e sta rendendo attualmente i migliori servizi ai Comandi Alleati in Roma, fornendo speciali documentazioni contro la polizia nazista ed i suoi agenti».[54]
A risolvere definitivamente l’impasse sulla figura di Dosi interveniva il Decreto ministeriale del 14 maggio 1946, registrato alla Corte dei conti il 26 agosto 1946, che riammetteva in servizio, ai sensi dell’articolo 6 del Decreto luogotenenziale 19 ottobre 1944, n. 301, l’ex commissario capo di polizia.[55] Riabilitato, veniva reinserito negli organici della Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione affari riservati, presso la quale tuttavia continuava a lamentare comportamenti ostili da parte dei suoi superiori.[56] È probabile che quindi, nonostante il reinserimento nei ranghi, la sua figura destasse ancora dubbi e perplessità, anche se riusciva comunque a ritagliare per sé un ruolo non del tutto differente da quello ricoperto nei primi anni della sua carriera.
L’Interpol e il coronamento della carriera
Dall’alto del suo rango, finalmente riconosciuto, Dosi aveva infatti avuto modo di partecipare alla riorganizzazione della ex Commissione internazionale di polizia criminale di Vienna[57] e alla sua trasformazione in Interpol, nome che tra l’altro sembra essere stato coniato su suggerimento dello stesso Dosi.[58] La neo-costituita Interpol permetteva allo special investigator di ricevere l’ultima, rilevante promozione della sua carriera professionale, dato che gli veniva affidata proprio la direzione dell’ufficio italiano di questo ente. Iniziava così l’ultima fase della sua carriera, nella quale si specializzava in problemi di polizia aerea, sostanze stupefacenti e falsificazioni. Si trattava spesso di attività pionieristiche, tenuto presente ad esempio che si era agli albori dell’aviazione civile[59] e del contrasto al traffico di stupefacenti.[60] Tra l’altro, non riusciva ad evitare indagini su casi di cronaca nera che, ancora una volta, erano particolarmente seguiti dai mezzi di informazione e da tutta la popolazione, in particolare quella romana. Sempre nella capitale, infatti, nell’aprile 1953 veniva coinvolto nel delicato caso, tutt’oggi irrisolto al pari di quello del “mostro di Roma”, relativo all’assassinio di Wilma Montesi.[61]
Promosso al grado di questore nel marzo 1951, Dosi riceveva diverse lettere di encomio[62] fino al suo definitivo congedo dalla polizia, avvenuto nel febbraio del 1956, dopo il quale decideva di fondare la Federpol, un’agenzia di investigazioni internazionali specializzata in inchieste riservate, e l’omonima rivista.[63] Fino agli ultimi anni della sua vita, tuttavia, egli avrebbe continuato ad avere una “fama contrastata”, tanto da essere da una parte insignito dell’onorificenza di Grande ufficiale dell’Ordine “al merito della Repubblica italiana”[64], mentre dall’altra si vedeva rifiutata la domanda di pensione privilegiata.[65]
Conclusioni
I nove mesi di occupazione nazista di Roma hanno rappresentato per Dosi una formidabile occasione di riscatto, sia della propria carriera che del proprio ruolo nella società italiana. È possibile a tal proposito sostenere che la sua vita professionale abbia conosciuto almeno tre distinte fasi: la prima era caratterizzata da un crescente successo, determinato soprattutto dalla conoscenza delle lingue straniere, dal suo eclettismo e dall’adozione di mezzi di indagine innovativi; la seconda era quella della persecuzione e dell’annullamento di ogni prospettiva lavorativa, fino alla privazione della libertà; la terza coincideva infine con la Seconda guerra mondiale, e in particolare con i nove mesi successivi all’8 settembre 1943, ed era caratterizzata da un lento processo di ricostruzione personale e professionale, approfittando anche del provvisorio indebolimento delle istituzioni italiane.
È infatti proprio il rapporto tra queste ultime e Dosi a rappresentare la chiave interpretativa attraverso cui contribuire all’analisi del periodo relativo all’occupazione nazista di Roma. Capitale d’Italia, e per questo dal determinante valore simbolico, la “città eterna” era la città dei ministeri e contemporaneamente delle relazioni umane istituzionali. Animata da politici, funzionari, alti ufficiali e imprenditori, i quali spesso basavano il proprio lavoro su una rete di rapporti e conoscenze, Roma era costretta a riformulare durante l’occupazione nazista i propri consueti protocolli burocratico-amministrativi. Ciò aveva permesso allo stesso Dosi di costruirsi una nuova rete relazionale, composta solo in parte dai retaggi della propria precedente esperienza, per debellare quella sorta di damnatio memoriae cui il regime fascista lo aveva condannato. È dunque possibile sostenere che fu la sostituzione dei funzionari mussoliniani con quelli alleati a costituire il vero punto di svolta della carriera professionale di Dosi.
Tale importante mutamento personale, tuttavia, non è comprensibile se non si analizza l’attività dello stesso ex commissario capo proprio durante l’occupazione nazista di Roma. Impegnato, invano, nella lotta per ritornare nel corpo di polizia, egli continuava a patire una nomea contrastata, in quanto da molte personalità fasciste era ancora visto come una persona ostile, mentre dagli antifascisti era accreditato come vicino al regime. Non schierato politicamente, egli finiva insomma con il subire l’assenza di fiducia nei suoi riguardi da entrambe le parti contendenti. Tuttavia, la fitta corrispondenza con cui continuava a chiedere alla polizia il proprio reintegro in ruolo denota anche una perdurante fiducia nelle istituzioni che, di fatto, permetterà a Dosi, similmente a molte altre persone, di contribuire alla sopravvivenza delle istituzioni italiane al fascismo, alla guerra ed all’occupazione nazista. La loro resilienza, e quella di alcuni degli uomini che le animavano, risulta il vero tratto peculiare dell’occupazione nazista di Roma.
[1] Per la redazione di questo contributo è stata utilizzata la documentazione, relativa alla carriera in polizia di Dosi, conservata in Archivio centrale dello Stato (d’ora innanzi Acs), Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza (P. S.) – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi». Non si è avuta occasione di consultare invece la documentazione conservata presso l’archivio storico dell’Ufficio Storico della Polizia di Stato a causa delle restrizioni necessarie per limitare la diffusione del virus Covid-19. Non è stato inoltre possibile studiare, come invece era la iniziale intenzione dell’autore, l’archivio del Museo di via Tasso in quanto non si hanno avute risposte alle ripetute richieste di accesso.
[2] Tra le passioni coltivate vi erano sicuramente il teatro, i travestimenti, la cinematografia e la letteratura, come riportato da A. A. Glielmi, Giuseppe Dosi: la storia dell’uomo d’ordine, il caso del suo archivio, in R. Camposano (a cura di), Giuseppe Dosi: il poliziotto artista che inventò l’Interpol italiana, Roma, Ufficio Storico della Polizia di Stato, 2015, pp. 29-31.
[3] Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi». Nell’isola portoghese era incaricato della sorveglianza di Carlo d’Asburgo, che vi era confinato dopo i due tentativi di colpi di Stato.
[4] Nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1922 il treno che collegava Parigi a Lisbona si scontrava contro un altro convoglio. Tale sfortunato evento è descritto sia in Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi» che in molte pubblicazioni sulla figura di Dosi, cui si rimanda per ulteriori informazioni.
[5] Dosi aveva riportato contusioni e ferite multiple in varie parti del corpo, tra cui la più importante era quella alla base del torace sinistro che diede luogo, col tempo, ad una pleurite traumatica e quella, meno grave, alla regione fronto-parietale sinistra. La diagnosi, numerosi anni dopo l’incidente, è riportata nella relazione di Filippo Saporito, ispettore generale del ministero di Grazia e giustizia, ora in Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della P.S., Divisione Personale di P.S., Versamento 1973, b.164 bis, fasc. 1547/3 – Dosi Giuseppe ex questore.
[6] Quello che era stato denominato il «volo dell’arcangelo», ovvero la caduta dal balcone della sua villa a Gardone Riviera, era stato raccontato dallo stesso poeta, il quale aveva avuto modo di ricordarlo in vari scritti, così come avevano fatto i suoi biografi, ad esempio in P. Gibellini (a cura di), Siamo spiriti azzurri e stelle. Diario inedito (17-27 agosto 1922), Firenze, Giunti, 1995. I risultati dell’indagine svolta da Dosi erano stati in seguito pubblicati in G. Dosi, Tecnica e arte dell’investigazione, circa la misteriosa malattia di Gabriele D’Annunzio, http://www.fondazionemondadori.it/cms/conservazione/126/ (ultimo accesso aprile 2021). L’indagine è stata analizzata successivamente anche in E. Di Francesco, Il vate e lo sbirro. L’indagine segreta del commissario Giuseppe Dosi sul “volo dell’arcangelo” Gabriele D’Annunzio, Chieti, Solfanelli, 2017.
[7] La conferma dell’immutata stima verso Dosi è sancita dall’assegnazione di nuovi e delicati incarichi di missione, prima a Corfù come responsabile di polizia durante l’occupazione italiana dell’isola e poi a Zurigo per indagare sui movimenti degli anarchici italiani in Svizzera. Particolarmente interessante, per i suoi risvolti nella politica estera italiana e nei rapporti con le altre potenze europee, è il primo incarico, dovuto al fatto che il 27 agosto 1923 il presidente della Commissione internazionale, incaricata dalla Conferenza degli ambasciatori di Parigi di delimitare la frontiera greco-albanese, il generale Tellini, ed altri tre ufficiali membri della delegazione italiana alla Commissione, erano stati assassinati da sconosciuti in territorio greco. Ciò aveva portato Mussolini, in qualità di presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli Esteri ad interim, a decidere l’occupazione della stessa isola greca, portata a termine tra il 31 agosto e il 1 settembre 1923 e conclusa già il 27 settembre di quello stesso anno.
[8] Non si comprende se vi erano stati, prima del 31 marzo 1924, precedenti casi di rapimenti di bambine. È possibile tuttavia sostenere che, semmai vi siano stati, i quotidiani locali e nazionali non avevano riportato la notizia. Allo stesso modo non esiste nessuna documentazione della prefettura di Roma inerente ad episodi simili precedenti all’aprile 1924.
[9] È utile sottolineare come tale campagna informativa non aveva coinvolto allo stesso modo tutti gli organi di informazione. Sorprendentemente i quotidiani antifascisti, ad esempio, avevano sottovalutato la trattazione di tali fatti di cronaca nera mentre quelli più vicini al fascismo avevano, soprattutto nel 1924, condotto una vivace campagna prima di comprendere il pericolo politico insito in tali notizie.
[10] La copertura della notizia dei rapimenti e uccisioni delle bambine è stata analizzata in F. Ecca, Gino Girolimoni: una mostruosa storia romana, Roma, Palombi, 2013. In questo volume si è analizzato soprattutto la costruzione del “mito” del mostro di Roma attraverso l’analisi degli articoli, soprattutto di quelli relativi ai primi due rapimenti/omicidi, pubblicati in quegli anni.
[11] Gli stessi organi di informazione e la documentazione inerente alle indagini su questi rapimenti e omicidi sottolineavano gli infruttuosi interventi di polizia che ogni volta si risolvevano in fermi ed arresti di persone innocenti e, per questo, liberate subito dopo aver illuso la popolazione di aver finalmente risolto questi casi. In merito si rimanda ancora una volta a F. Ecca, Gino Girolimoni, cit.
[12] Si veda F. Ecca, I quotidiani e la cronaca nera: il caso Girolimoni, in «Officine della Storia», n. 13, 2015 ed Id., Roma nel caso Girolimoni. Dinamiche culturali e urbane di una città impaurita, in Y. Carola, A. De Palma, M. Donolo, F. Kulberg Taub, B. Minczewa e M. Pigliucci (a cura di), La città. VI seminario interdisciplinare dei Dottorandi, Dottori di ricerca e Ricercatori, Roma, UniversItalia, 2015.
[13] L’arresto era stato in realtà eseguito il 2 maggio 1927 ma la notizia era stata fatta trapelare solo alcuni giorni dopo. Non è possibile sapere i motivi di tale ritardo, ovvero se quel lasso temporale era servito a “costruire” dopo il suo arresto le prove della responsabilità di Girolimoni oppure se si era deciso di non diffondere inizialmente tale notizia per altre ragioni.
[14] A supporto di tale (presunta) certezza interveniva lo stesso Benito Mussolini, il quale era corso ad attestarsi l’apparente successo che, da investigativo, si trasformava velocemente in politico e propagandistico. Il duce poteva infatti ritornare a presentarsi come il garante della sicurezza e tranquillità dei romani e di tutti gli italiani. Cfr. F. Ecca, Gino Girolimoni, cit., pp. 119-121.
[15] Un più approfondito esame della sentenza di assoluzione è rintracciabile in F. Ecca, Gino Girolimoni, cit., pp. 135-136. Sul giudice istruttore, che tra l’altro era considerato dallo stesso regime fascista come «Uomo di fine tatto e di risorsa e idoneo ad affrontare e superare situazioni difficili e intricate come più volte ne ha dato […] prova», tanto da affidargli l’incarico di magistrato d’accusa nel processo contro Zaniboni. Acs, Ministero di Giustizia, Prima presidenza della corte di appello di Roma, prot. n. 2002 e n. 832 del 31 maggio 1927.
[16] Cfr. soprattutto G. Dosi, Il mostro e il detective. La vera storia del caso Girolimoni rivelata dal commissario Dosi che ne fu l’intrepido protagonista, Firenze, Vallecchi, 1973.
[17] Il “problema di Capri” era nato grazie ad alcuni articoli di quotidiano in cui si denunciava che numerosi omosessuali vivevano una «vita d’ozio, di mollezze ed estetismi snobistici». G. Dosi, Il mostro e il detective, cit., p. 58.
[18] È quanto si evince in Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della P.S., Divisione Personale di P.S., Versamento 1973, b.164 bis, fasc. 1547/3 – Dosi Giuseppe ex questore.
[19] Si trattava evidentemente ancora una volta di indagini ufficiose, tanto da non essere documentate in alcuna nota ufficiale. Cfr. E. Di Francesco, Affinità di un collega e maestro, in R. Camposano (a cura di), Giuseppe Dosi, il poliziotto artista che inventò l’Interpol italiana, Roma, Ufficio Storico della Polizia di Stato, 2015, p. 188.
[20] Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della P.S .- Divisione Personale di P.S., Versamento 1973,b. 164 bis, fasc. 1547/3 – Dosi Giuseppe ex-questore.
[21] Di questo memoriale di 483 pagine erano state stampate unicamente cento copie, ora andate disperse e solo in minima parte successivamente riportate nel già citato volume.
[22] Si è ricostruito parzialmente il contenuto generico del volume grazie ad alcuni appunti ed alle denunce che questo aveva suscitato per cui si offre in questa sede una ricostruzione sicuramente parziale dei suoi macro-contenuti. Si è riusciti a ricostruire un elenco parziale di quanti avevano ricevuto il libro analizzando le reazioni di questi.
[23] Il decreto di dispensa dal servizio per violazione della legge ed eccesso di potere è in Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della P.S .- Divisione Personale di P.S., Versamento 1973, b. 164 bis, fasc. 1547/3 – Dosi Giuseppe ex-questore.
[24] Ibidem. Dosi era ormai considerato un soggetto pericoloso. È quanto emerge leggendo l’informativa del 15 giugno 1939 scritta dal questore Palme e inviata ai dirigenti di P.S. della Capitale. «Il DOSI è giunto nella Capitale stamane ed ha preso alloggio in Arco dei Ginnasi, 6. Poiché, a quanto risulta, avrebbe intenzione di tentare d’avvicinare S.E. il Capo del Governo, S.E. STARACE e S.E. il Capo della Polizia, interesso le SS. LL. perché provvedano a rigorose misure di vigilanza per impedire che il DOSI possa compiere azioni inconsulte, e comunque non consentibili, essendo individuo capacissimo di attuarle. Richiamo la particolare attenzione della Squadra Presidenziale e dei commissari di Porta Pia, Campitelli e Sant’Eustachio. Per quanto riguarda la vigilanza nei pressi dell’abitazione del DOSI, pel momento provvede direttamente questo Ufficio Politico. Tengasi anche presente che il DOSI eventualmente possa camuffarsi. I di lui connotati sono: statura alta, corporatura robusta, capelli castano-chiari con calvizie fronto-parietale, colorito roseo, naso aquilino, porta occhiali d’oro a stanghetta».
[25] È chiaro, anche se solo indiretto, il riferimento alle vicende legate al “mostro di Roma”, a Gino Girolimoni ed al pastore anglicano Ralph Lyonel Brydges.
[26] Molto interessante è, a questo proposito, la lunga relazione psichiatrica redatta il 6 settembre 1939. In tale documento, inviato direttamente al capo della polizia Arturo Bocchini, si asseriva che Dosi era afflitto da turbe psichiche dovute all’incidente ferroviario del 1922, ben diciassette anni prima. Cfr. Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi», «aggiornamenti psichiatrici». È inoltre da sottolineare che, proprio durante questo periodo di detenzione, dopo la morte del suo principale accusatore Bocchini, aveva chiesto – invano – l’annullamento del decreto di dispensa dal servizio per permettere alla famiglia di avere un reddito minimo.
[27] Non si è in realtà sicuri che questa fosse la sua vera occupazione, dato che in altri documenti veniva classificato come impiegato di basso rilievo. Cfr. sempre a tal proposito Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi». È probabile tuttavia che egli abbia svolto in seno all’Eiar più attività ma che quella di addetto alla sicurezza, soprattutto degli operatori e giornalisti inviati, sia stata la principale o comunque quella con maggiori affinità rispetto alla suo precedente carriera in pubblica sicurezza.
[28] Nei giorni immediatamente precedenti alla battaglia di Porta San Paolo Giuseppe Dosi aveva scortato la troupe dell’Eiar a Castel di Leva, alla Cecchignola ed a Garbatella, dove vi erano stati i primi scontri con l’esercito nazista. Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi», Documento del 3 maggio 1946 intitolato «ATTIVITÀ del Dott. DOSI GIUSEPPE durante l’occupazione germanica di ROMA – Settembre 1943-Giugno 1944».
[29] Malgrado fosse stata disposta a difesa dell’edificio una compagnia di carabinieri e soldati, questi erano rimasti inoperosi e avevano permesso l’acquartieramento nel palazzo di due ufficiali e due soldati tedeschi. Vista la scarsa difesa approntata dai nazisti, Giuseppe Dosi richiedeva e otteneva l’arresto dei quattro occupanti e, conseguentemente, di poter rientrare nella palazzina giusta in tempo per sabotare i macchinari e le attrezzature presenti. Infatti, alle ore 23 del 10 settembre un gruppo di paracadutisti germanici occupava definitivamente l’edificio. Tale episodio è narrato dettagliatamente nel rapporto presentato il giorno successivo dallo stesso Dosi che denunciava il comportamento rassegnato dei dirigenti dell’Eiar. Cfr. Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi».
[30] L’episodio è ben descritto in una vasta bibliografia che include, tra le altre, le seguenti opere: M. Baumeister, A. Osti Guerrazzi e C. Procaccia (a cura di), 16 ottobre 1943, Viella, Roma, 2016; A. Foa, Portico d’Ottavia 13, Laterza, Roma, 2013; R. Katz, Roma Città Aperta. Settembre 1943-Giugno 1944, Il Saggiatore, Milano, 2013; M. Pezzetti, 16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma, Gangemi editore, Roma, 2016; R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 2005.
[31] Tale elenco è in Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi», Memoria del 3 maggio 1946 presentata da Giuseppe Dosi al Ministero dell’Interno, in cui sono riassunti tutti questi eventi.
[32] È opportuno sottolineare che lo stesso Dosi avrebbe dato successivamente un’altra versione dei motivi per cui era riuscito a non essere trasferito. Nel volume autobiografico Il mostro e il detective egli infatti sosteneva che aveva assunto tale decisione per non dover trasferire la propria famiglia e non per un rifiuto di aderire alla Repubblica sociale italiana. G. Dosi, Il mostro e il detective, cit., p. 260.
[33] Tale decisivo aiuto è ammesso dallo stesso Dosi in Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi», Memoria del 3 maggio 1946. Presso la Direzione compartimentale di Roma svolgeva unicamente funzioni amministrative, occupandosi del registro di controllo del personale italiano in cui dovevano essere registrate ferie, malattie, permessi e turni di servizio.
[34] Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi».
[35] Un anno prima, infatti, lo stesso Comitato aveva deciso di sospendere ogni procedere di riconoscimento della pensione privilegiata in attesa, di fatto vana, del pronunciamento del Collegio medico-legale. Cfr. Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi».
[36] Giuseppe Dosi scriveva tra l’altro anche a Cerruti e Leto. Cfr. Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi».
[37] Ibidem.
[38] Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi», Memoria del 3 maggio 1946.
[39] Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi». Documento del 3 maggio 1946 intitolato «ATTIVITÀ del Dott. DOSI GIUSEPPE durante l’occupazione germanica di ROMA – Settembre 1943-Giugno 1944». In realtà, non è probabilmente corretto parlare di una vera operazione di polizia, ovvero di un’iniziativa appositamente congegnata ed elaborata, ma è più corretto asserire che si era trattato di mero caso, dato che è lo stesso Dosi ad asserire che «mi trovai in via Tasso». G. Dosi, Il mostro e il detective, cit., p. 260.
[40] Qui, durante i nove mesi di occupazione di Roma, erano stati trattenuti, interrogati, spesso seviziati e torturati, centinaia di romani, sia di religione ebraica che politici o semplici cittadini. Non è un caso che nella stessa sede utilizzata dalle SS si sia insediato successivamente il Museo Storico della Liberazione istituito con la legge 14 aprile 1957 n. 277.
[41] La razzia dell’edificio, dove la folla avrebbe bruciato mobili, suppellettili e documenti, è ben documentata da una preziosa foto scattata dallo stesso Dosi in cui è ritratto l’edificio avvolto in una nuvola di fumo ed un piccolo rogo di documenti.
[42] Tra i documenti salvati vi erano anche le ricevute dell’esplosivo e del denaro consegnato ai sabotatori, le schede riguardanti gli arresti compiuti, diverse copie delle sentenze del tribunale germanico di guerra, registri nominativi e corrispondenze con uffici militari. Esaurita tale operazione a via Tasso, Dosi si recava infine al carcere di Regina Coeli, dove i nazisti avevano a disposizione il VI braccio per i detenuti politici e nel quale procedeva nuovamente a salvare schede, registri e documenti vari. Cfr. G. Dosi, Il mostro e il detective, cit., p. 260, dove tuttavia l’intera vicenda viene descritta in meno di un paragrafo.
[43] Tale documento è stato successivamente reso pubblico dallo stesso Dosi in un libretto il cui sommario, in tedesco, è presente in Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi».
[44] Ne è un esempio la sua presenza in Campidoglio accanto al generale Clark, documentata da una fotografia riportata in U. Gentiloni (a cura di), 4 Giugno 1944: la Liberazione di Roma nelle immagini degli archivi alleati, Milano, Skira, 2004, p. 100.
[45] Non si è trovato alcuna documentazione relativa alla consegna del materiale. L’unica testimonianza in tal senso è quella dello stesso Dosi che così scrive: «All’indomani, il 5 giugno, verso le ore 9,30, il generale Clark, comandante la V Armata americana, con reparti inglesi, marocchini e polacchi, per la via Appia Nuova entrava in Roma a porta San Giovanni [lo stesso quartiere dove abitava Dosi, ndr] ed io salivo su una jeep di corrispondenti di guerra, recandomi, con essi, in Campidoglio. […] Vi prego di credere che io, qualificatomi per giornalista […] e dato, in inglese, il benvenuto al generale Clark, chiamandolo “liberatore di Roma” […] e dirgli che io ero in possesso di importanti documenti nazisti, con notizie di esplosivo e sabotatori, che era urgente arrestare». G. Dosi, Il mostro e il detective, cit., pp. 260-261.
[46] Lo svolgimento di queste mansioni è attestato in numerosi documenti redatti dal distaccamento di Roma del Counter intelligence corps conservati in Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi» e anche dallo stesso Dosi, in G. Dosi, Il mostro e il detective, cit., pp. 261-263. Sulla Commissione tecnico-scientifica per l’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine si veda A. Glielmi, Il corpo e il nome. Inventario della Commissione tecnica-medico-legale per l’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine (1944-1963), Viella, Roma, 2020.
[47] Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi». La traduzione, in alcuni punti approssimativa, è presente nello stesso fascicolo Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi».
[48] Ibidem, raccomandata del 9 novembre 1944.
[49] Ibidem.
[50] La corrispondenza intercorsa tra il dicembre del 1945 e il maggio 1946 ne è un valido esempio. In un documento del 22 dicembre 1945, preparativo del successivo Consiglio d’Amministrazione di P.S., veniva richiesto di riesaminare la riammissione in ruolo di Dosi ai sensi dell’art. 53 dello Stato Giuridico degli Impiegati dello Stato. Non ricevuta risposta, il 3 maggio 1946 lo stesso Dosi presentava una lunga memoria in cui ricostruiva le proprie «attività […] durante l’occupazione germanica di ROMA». Tale secondo documento convinceva lo stesso Ministero dell’Interno a presentare, quattro giorni dopo, una contro-memoria inerente sempre allo stesso ex commissario-capo. Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi».
[51] Ibidem.
[52] Pietro Paolo Tomasi, marchese della Torretta e zio del celebre Giuseppe Tomasi di Lampedusa, aveva conosciuto Giuseppe Dosi tra il 1919 e il 1922 quando il primo era l’ambasciatore italiano a Vienna chiamato a ripristinare i contatti diplomatici con l’ex stato austro-ungarico ed il secondo della sicurezza di quella stessa sede diplomatica. Pietro Paolo Tomasi poteva naturalmente contare di un grande prestigio tra le istituzioni antifasciste dopo l’8 settembre 1943 in quanto era stato destituito da ogni incarico diplomatico da Mussolini nel lontano 1927 e non volendo mai aderire al fascismo, di cui fu oppositore in qualità di senatore del Regno.
[53] Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi».
[54] Ibidem.
[55] Decreto Luogotenenziale 19 ottobre 1944, n. 301.
[56] Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi».
[57] Fondata nel 1923, la Commissione internazionale di polizia criminale di Vienna aveva lo scopo di collegare le polizie di più Paesi. In proposito, cfr. il saggio di O. Di Tondo, Giuseppe Dosi, la polizia internazionale e la nascita dell’Interpol, in R. Camposano (a cura di), Giuseppe Dosi, il poliziotto artista che inventò l’Interpol italiana, Roma, Ufficio Storico della Polizia di Stato, 2015.
[58] Cfr. ad esempio A. A. Glielmi, Giuseppe Dosi: la storia dell’uomo d’ordine, il caso del suo archivio, in R. Camposano (a cura di), Giuseppe Dosi, il poliziotto artista che inventò l’Interpol italiana, cit., p. 51.
[59] Si tratta di un ambito delle attività di Dosi che in questo volume si è deliberatamente scelto di non affrontare. Si rimanda quindi ad ulteriori lavori l’analisi di queste indagini.
[60] In merito a quest’ultimo, pur non facendo parte dell’oggetto specifico di questo contributo, è opportuno ricordare che Dosi è stato probabilmente uno dei primi italiani a parlare dell’esistenza di Salvatore Lucania, conosciuto dall’opinione pubblica internazionale come Lucky Luciano. Durante i lavori della Commissione narcotici all’Onu, a New York, Dosi aveva presentato ed analizzato il gangster italo-americano che, dopo aver collezionato innumerevoli condanne per spaccio di stupefacenti, nel 1946 era stato trasferito in Italia su richiesta dello stesso Dosi per dipanare la nebbia che avvolgeva l’attività di spaccio di stupefacenti a Roma.
[61] Si trattava di un caso di cronaca nera dal grande rilievo mediatico, in quanto le indagini finivano con il coinvolgere alcuni personaggi dell’establishment dei timorati anni Cinquanta, come il figlio del potente politico democristiano Attilio Piccioni e il celeberrimo marchese Ugo Montagna.
[62] Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi», documento dell’8 novembre 1954.
[63] Ibidem.
[64] Il riconoscimento della Presidenza della Repubblica avveniva il 27 dicembre 1961 su proposta della Presidenza del consiglio dei ministri, https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/260140 (ultima consultazione maggio 2021).
[65] Acs, Ministero dell’Interno, Direzione Generale P. S. – Divisione Personale P. S. (1890-1966), versamento 1973, b. 164bis, f. «Giuseppe Dosi».