Carlo Bruno*
Lo scorso marzo l’Unione Europea ha organizzato il meeting on line “A cloud for All” per lanciare The research and innovation community platform, uno spazio di incontro tra esperti ispirato, come dichiarato nella presentazione, ai principi della Comunità di Pratica “Europe’s research and innovation community platform is a unique space bringing together researchers from the EU and beyond”.
L’evento mirava a “dare il via alla formazione di una comunità di pratica tra professionisti del patrimonio culturale e dimostrare come il cloud collaborativo europeo per i beni culturali possa essere utile nel loro lavoro quotidiano”.
Il budget previsto da Horizon Europe è di 110 milioni di euro fino al 2025, ed è dedicato a sostenere lo sviluppo e la creazione della community, per promuovere la cooperazione e la co-creazione tra i settori culturali, creativi e tecnologici e contribuire a salvaguardare i tesori culturali europei attraverso un’infrastruttura digitale.
L’Europa punta su “A cloud for All” ?
L’Unione Europea ha quindi posto molta enfasi a questo suo nuovo progetto, dichiarando che “Il cloud collaborativo europeo per il patrimonio culturale sarà un’infrastruttura digitale unica nel suo genere che consentirà una collaborazione transdisciplinare e su larga scala senza precedenti tra i professionisti del patrimonio culturale in tutta l’UE attraverso strumenti digitali all’avanguardia”.
Nell’occasione la commissaria Mariya Gabriel ha auspicato che il patrimonio culturale europeo entri in una nuova dimensione digitale, sottolineando come questo progetto possa rendere il patrimonio culturale europeo un leader mondiale nell’utilizzo delle tecnologie digitali per creare valore per i benefici di tutti i cittadini. La presentazione dell’evento include un invito a tutti i professionisti nel campo dei Beni Culturali che desiderano essere coinvolti in questo sforzo affinché partecipino all’iniziativa
Il tono degli annunci, qui fedelmente riportato, sembrano far intendere che l’Unione Europea attribuisca molto credito a questa metodologia di lavoro e di condivisione della conoscenza.
La Teoria della Comunità di Pratica, gli inizi
La Comunità di Pratica non è però una novità assoluta, anzi. Questa teoria si è già sviluppata negli anni 80 come metodologia di formazione in ambienti remotamente distribuiti, naturalmente con tutti i limiti che le tecnologie avevano quegli anni. Ciò nonostante si affermò comunque in alcuni ambiti professionali che facevano riferimento a grandi multinazionali che, in questo modo, desideravano favorire la condivisione della conoscenza in ambito aziendale.
Tra la fine degli anni 90 e l’inizio degli anni 2000, lìesplosione del web e la nascita di alcune applicazioni che ne sfruttavano le potenzialità, tipicamente all’inizio mail, blogging e tra le più evolute il trading on line (la Borsa è stata una delle prime realtà planetariamente interconnesse in tempo reale) favorì la nascita di un nuovo fenomeno i cui meccanismi si ispiravano alla Comunità di Pratica: il social networking.
Nel breve volgere di qualche anno, ma da considerarsi ere geologiche per il web, alcuni giganti, come MySpace (2003), furono rapidamente resi obsoleti da applicazioni come Facebook (2004) e Twitter (2006) più aperti alla costruzione di network aperti.
Come ho anticipato molte dinamiche applicative di questi social network erano (e sono) ispirati alla Comunità di Pratica. Il loro successo e di quello che era stato denominato il fenomeno “web 2.0” è stato determinato dalla capacità di individuare meccanismi di coinvolgimento degli utenti a fini preminentemente ludici ma non è complicato desumere che le metodologie collaborative possano contribuire a rendere più efficienti i processi interni anche in ambito produttivo, nella ricerca e nella formazione.
Approccio collaborativo alla formazione interna
La coltivazione di un network richiede la virtualizzazione degli ambiti di lavoro, tempo ed energie per gestire tali spazi, è ovvio quindi che l’adozione di tali schemi all’interno di una struttura poteva far insorgere anche il dubbio che si corresse il rischio di introdurre nuovi fenomeni di “distrazione” anziché miglioramenti e nuove opportunità. Favorire l’interazione digitale e lasciare maggiore libertà organizzativa agli individui poteva far pensare al venir meno di alcune forme di controllo e soprattutto l’aumento dell’impegno su attività non (apparentemente) strettamente produttive.
Il fenomeno del social networking però si appoggia in larga parte proprio su una teoria nata in ambito industriale per rendere più efficiente il processo formativo del personale.
L’emergenza pandemica ha poi contribuito a rovesciare molte di queste convinzioni. L’oggettiva necessità di virtualizzare gli ambienti di lavoro ha dimostrato che la temuta riduzione della produttività non era un risultato da attendersi automaticamente. Anzi. La maggiore efficienza dei gruppi ha largamente compensato qualche individuale contrazione di impegno.
Il vero valore aggiunto si è dunque materializzato nella distribuzione delle competenze grazie alla maggiore condivisione delle informazioni. Il lavoro è sempre meno individuale e sempre più collaborativo.
Comunità di Pratica vs Specializzazione
La Teoria, come si è detto, è quella della di “Comunità di Pratica”, nata negli anni 80 e rilanciata all’inizio degli anni 90 da Wenger e Lave. Si basa sul superamento del concetto di relazione stretta e diretta, tra allievo ed esperto nell’apprendimento della conoscenza professionale.
Questo meccanismo (della relazione stretta) produce separazione e specializzazione, che se da un lato permette ad un soggetto di acquisire know how ed essere sempre più rapido nel proprio lavoro dall’altro lo rende “schiavo” della propria focalizzazione.
Il mondo delle tecnologie.
La capacità di intervenire rapidamente su una procedura, della quale magari esiste poco know how aziendale e/o documentazione, costituisce spesso una penalizzazione per la partecipazione a nuovi progetti, per i quali paradossalmente sono avvantaggiati persone meno esperte e meno legate al quotidiano processo produttivo. Come si sa la partecipazione a nuovi progetti è fonte di motivazione e quindi l’esperienza, legando persone a progetti in corso (come ahimé la manutenzione di vecchie procedure) poco motivanti, finisce per essere percepita come un handicap. Questa specializzazione è realmente un handicap per l’organizzazione perché rende essenziali alcune figure detentrici di un particolare know-how
L’assenza di un adeguato turno-over sui progetti e/o della condivisione di competenze produce poi la perdita di tale know how quando un individuo lascia l’organizzazione.
Questo indipendentemente dal valore per l’azienda stessa rappresentato dal servizio di cui si occupa. Si aggiunga inoltre che l’avvento delle tecnologie web ha introdotto molte più variabili nella predisposizione di una soluzione, determinate dal crescente numero di software che occorre integrare per predisporre un servizio. Inoltre occorre anche specificare che i tempi di obsolescenza di un software si sono abbreviati a causa dell’affacciarsi di sempre nuove soluzioni più performanti.
Queste considerazioni determinano la necessità di condividere le competenze e le esperienze, sempre più raramente il singolo individuo può affrontare da solo le sfide tecnologiche
Il superamento dell’approccio individualista
Fino a qualche anno fa uno dei concetti che ha trovato maggiore riscontro nelle grandi organizzazioni è stato, in generale, quello della centralizzazione del controllo dell’informazione, anche interna.
Un’applicazione rigida di questo concetto confligge ovviamente con un metodo di lavoro alternativo che punta al coinvolgimento degli individui. Questo coinvolgimento infatti non può essere stimolato se contemporaneamente l’organizzazione esprime forte un’idea di “controllo”.
Si tratta quindi di fare un salto di qualità nei rapporti interni e di rimettere in gioco scelte consolidate ma le potenzialità di crescita determinate da questo approccio sono enormi. Sono enormi soprattutto in relazione alla capacità dell’individuo (se stimolato) di portare all’interno della struttura organizzativa conoscenza esterna, grazie alla propria abilità di networking individuale che, secondo la medesima teoria su cui si sono sviluppati i social network, indica in sei gradi di separazione che dividono ciascuno di noi da ogni altra persona e quindi dal suo sapere
Modello di progettazione della comunità
Come si vede il metodo collaborativo segue un principio che tende a destrutturare i processi e le stesse organizzazioni, quindi impegnativo da accettare per l’organizzazione stessa. Possiamo sintetizzare i passi del percorso per un mutamento organizzativo che occorre sviluppare:
- progettare l’evoluzione della comunità, assecondandone i naturali trend senza imporre un solo modello precostituito.
- Creare un dialogo tra interno ed esterno, ovvero favorire l’osmosi tra la conoscenza interna agli individui della comunità e la conoscenza disponibile all’esterno.
- Promuovere diversi livelli di partecipazione per consentire a ciascuno di “usare” la comunità sulla base delle proprie esigenze
- Sviluppare aree pubbliche e private, per favorire le “cellule” di individui e gli individui stessi che troveranno spazi di conversazione individuali e collettivi.
- Focalizzarsi sul valore attraverso l’opera dei moderatori/promotori, gli individui più attivi per valorizzare il contributo dei singoli
- Stimolare il ritmo, ovvero evitare la perdita di interesse nei confronti della comunità combinando adeguatamente routine ed innovazione
La principale finalità della comunità di pratica è di sostituire il sistema di rapporto diretto esperto/allievo con una metodologia di lavoro fatta di relazioni allargate e in un sistema di rete sociale aperta e partecipativa:
Gruppi di lavoro devono poter nascere a “geometria variabile”, intorno a tematiche specifiche e possono differenziarsi in base ad esigenze specifiche:
- contraggono impegni tra i soggetti che di volta in volta cooperano
- condividono insiemi di esperienze e competenze
- determinano un percorso di apprendimento che nasce dalla negoziazione delle esperienze dei singoli individui.
E’ evidente, da quanto detto, che molto del mondo dei social network si basa su questo schema di relazioni che determina la nascita di gruppi accomunati da temi di discussione di interesse per un gruppo di individui, si va dalle cause sociali, alle identità locali ecc.
Il successo di questi poli di aggregazione dipende non solo dal tema caratterizzante ma anche dalla presenza di personaggi in grado di animare la discussione, talvolta anche mediante “provocazioni premeditate”.
Le comunità hanno a disposizione degli strumenti per lo scambio delle informazioni, spazi di discussione, pubblicazione di media, organizzazione di eventi. Il limite di un network di “intrattenimento” generalista è la mancanza di capacità di molti di distinguere tra fonti “trusted” fonti verosimili, la mancanza di gerarchia attribuisce a chiunque la facoltà di intervenire ma altrettanto risiede nelle persone la capacità di valutare le affermazioni e le notizie pubblicate
Il progetto sulla Cultura
Questo metodo è stato da prima applicato con successo in alcuni contesti industriali, da Microsoft a Procter & Gamble, ma di fatto sono anche alla base del successo del fenomeno del Social Networking. Ed è proprio questo successo nel campo delle relazioni personali che ne ha evidenziato anche l’efficacia in campo aziendale.
Come affermava Domenico Lipari nella sua prefazione a “Coltivare le comunità di pratica” di Wenger, McDermott e Snyder: “il fondamento dell’apprendere risiede dunque nella partecipazione sociale ad una pratica” e diventa quindi determinante rendere efficaci e concreti ii concetti che mirano al “community development” e sono essenziali per determinare il successo di una esperienza lavorativa di collaborazione
A. Gli strumenti, la teoria della comunità di pratica infatti ipotizza la disponibilità di strumenti che gli utenti possono scegliere di utilizzare con una certa libertà. I social network attuali rendono disponibili servizi molto elementari (blog, bollettini, raccolte di foto). In ambito professionale si dovrebbe ottenere l’obiettivo di elevare la qualità dei servizi puntando su comunicazione, ricerca di informazioni, competitive intelligence, archivi multimediali veri e propri.
B. Individui e le cellule, ovvero meccanismi collaborativi che riescano a mettere in contatto utenti appartenenti alle reti sociali con un meccanismo trasversale teso a favorire l’integrazione delle reti stesse. Caratteristica di questo modello organizzativo è l’agilità con cui gli individui reagiscono alle sollecitazioni e danno vita a strutture snelle e dinamiche in grado di affrontare un problema specifico
C. I moderatori. La funzione di questi personaggi è quello di stimolo di attività collaborative. Tale attività richiede impegno e l’impegno è spesso proporzionale alla verifica dell’efficacia della collaborazione. Il moderatore è quindi colui che cerca di mantenere alto il “ritmo” della collaborazione, rilanciandola in momenti di stanca e riportandola su binari concreti quando invece tende eccessivamente a divagare.
D. Trasparenza e Motivazione, in quanto la condivisione degli strumenti e degli obiettivi introduce nel sistema una maggiore trasparenza del fini e del modello organizzativo, rendendo percepibile il ruolo del singolo individuo e determinandone le adeguate motivazioni
Quest’ultimo punto è probabilmente lo snodo centrale nell’adozione di sistemi collaborativi: il contributo sarà tanto più efficace e maggiore tanto più verrà percepito come atteso ed apprezzato. Questo forse può rappresentare uno dei maggiori ostacoli in questo momento, per l’adozione di tale metodologia all’interno di strutture grandi ed organizzate, in ambiti fortemente motivanti come l’ambito culturale ne può diventare il motore.
*xDams O.S. Archives Cloud Manager