L’occupazione militare in Italia 1943-1945 ricordata ottant’anni dopo: memoria e racconto orale nelle videointerviste del progetto MemoGen

Gianluca Cinelli – Fondazione Nuto Revelli

DOI 10.53258/ISSN.2785-261X/OI/04/1236

Introduzione

Nei decenni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, si è consolidata nell’immaginario collettivo italiano una contrapposizione netta – nutrita spesso dal cinema e altre forme di cultura popolare – fra i tedeschi come occupanti crudeli e gli alleati come liberatori generosi e animati da ideali di giustizia. Le truppe angloamericane furono perlopiù accolte con benevolenza e gratitudine, soprattutto perché il loro arrivo significava la fine della guerra e la possibilità a volte di alleviare il problema della fame, tuttavia anche il loro passaggio fu spesso costellato da episodi di criminalità e di violenza che hanno lasciato tracce nella memoria delle persone.[1] Appena dopo lo sbarco in Sicilia, per esempio, la presenza alleata assunse spesso un carattere «predatorio e brutale», anche con episodi di «stupro e di violenze compiute da parte delle truppe angloamericane a danno di civili e militari italiani.»[2] Altrettanto famigerate sono le cosiddette «marocchinate», alla cui memoria ancora persistente in molte comunità dell’Italia centrale la ricerca ha dedicato attenzione solo in anni recenti.[3]

Accanto a numerosi contributi storiografici che nel corso di vari decenni hanno esaminato il tema dell’occupazione militare su larga scala,[4] alcune ricerche di storia orale hanno mostrato fin dagli anni Settanta del secolo scorso che la memoria dell’occupazione militare si è articolata in modo complesso, producendo racconti, stereotipi e pregiudizi che nel tempo si sono trasmessi fra le generazioni in chiave locale o microstorica.[5] Con il progetto MemoGen, a ottant’anni di distanza dal conflitto, ci domandiamo che cosa rimanga di quelle esperienze nell’orizzonte culturale delle persone che non le hanno vissute, ma ne hanno avuto notizia anzitutto attraverso i racconti dei nonni, in famiglia, per capire come la memoria del conflitto si sia modificata e trasmessa nel corso di tre generazioni.

L’occupazione militare nelle ricerche di Nuto Revelli e Alessandro Portelli (1978-1999)

Con i libri Il mondo dei vinti (1978) e L’anello forte (1985), Revelli portò in luce in modo rivoluzionario il rapporto conflittuale esistito fra il mondo contadino e la seconda guerra mondiale, intervistando centinaia di persone nelle campagne del Cuneese. In un contesto che un testimone ricorda come «una specie di anarchia», dove «il più forte mangiava il più debole», l’occupante straniero per eccellenza era il tedesco,[6] e l’occupazione militare era percepita come una condizione di pericolo costante: «qui la gente teneva alla pelle e basta: veniva il tedesco, gli davano quel che chiedeva; veniva il fascista, lo stesso; veniva il partigiano, lo stesso»,[7] ma alla fine «il tedesco era il padrone, rubava, ammazzava.»[8] In pochissimi casi si incontra, fra i racconti raccolti da Revelli, una visione più articolata del rapporto complesso che esisteva fra l’azione partigiana e l’occupazione militare:

I tedeschi venivano, spaccavano, bruciavano, rubavano, e tutto andava bene purché se ne andassero via presto. E poi nella mente della gente c’è questo, che senza la presenza dei partigiani i tedeschi non sarebbero venuti a rastrellare, i repubblichini nemmeno. Non capiscono che senza la presenza dei partigiani tutti i giovani li avrebbero costretti ad arruolarsi nella «repubblica».[9]

I fascisti italiani si fissano nella memoria come una vera e propria forza di occupazione che viene chiamata da molti testimoni «la repubblica», come se davvero si trattasse di uno stato estero che «si faceva odiare da tutti».[10] Da questo quadro, tuttavia, sono praticamente assenti gli Alleati. Soltanto una donna del 1924 menziona in modo fugace gli inglesi: «il tedesco era lo straniero che avevamo combattuto durante il Risorgimento, il tedesco era il nemico da scacciare, il nemico per antonomasia. Anche l’inglese era il nemico da scacciare, ma prima dovevamo scacciare il tedesco.»[11] Si tratta di un ragionamento curioso, basato forse su reminiscenze delle guerre d’indipendenza ottocentesche, che paradossalmente finisce col saldarsi a un tema della propaganda fascista.

Ancor più sfumato è il ricordo dell’occupazione tedesca nel secondo libro, L’anello forte, costituito da interviste femminili. Per le donne, il ricordo della presenza tedesca assume soprattutto i contorni dell’irruzione nello spazio domestico, e si lega alla paura di subire violenza sessuale da parte dei soldati tedeschi o dei repubblichini,[12] e soltanto in un caso una testimone trasmette un’immagine degli Alleati diversa da quella stereotipata dei liberatori, ricordando che al loro arrivo a Lugo, dov’era sfollata nel 1945, gli americani raccomandarono alle donne di restare chiuse in casa per evitare il pericolo delle violenze sessuali.[13]

Nuto Revelli tornò ancora sul tema dell’occupazione militare tedesca negli anni Novanta, con il libro Il disperso di Marburg, confermando l’immagine dei tedeschi come occupanti feroci, delle «belve».[14] Al contempo, notava che a distanza di cinquant’anni dagli eventi i ricordi s’erano offuscati e interpolati, spesso sovrapponendosi fra loro e con altri racconti.[15] La stessa figura del soldato tedesco disperso, apparentemente «diverso» e «buono», si connota più come l’eccezione individuale che conferma la regola tramandata attraverso i racconti dei testimoni: «no, nessun tedesco buono. Forse uno per uno, sì. Ma due insieme non buoni.»[16]

Nel libro L’ordine è già stato eseguito (1999), che Alessandro Portelli dedicò nella seconda metà degli anni Novanta alla memoria delle Fosse Ardeatine, il campione degli intervistati si sposta in avanti fino a raggiungere la terza generazione, cioè le persone nate a partire dagli anni Settanta. Dal capitolo 10, intitolato “I nati dopo”, emerge che nella seconda metà degli anni Novanta i giovani avevano una cognizione generica della strage delle Fosse Ardeatine, non connessa con l’attentato di via Rasella né chiaramente collocata nel contesto generale dell’occupazione tedesca:

Nei racconti giovanili prevale la vaghezza; qualche reminiscenza ce l’hanno in tanti, ma conoscenze precise quasi nessuno. […] Tutti indicano come fonti la famiglia, la scuola, la televisione, ma non ho quasi mai sentito un riferimento specifico a un testo scolastico, a un racconto familiare (salvo casi di coinvolgimenti diretto o indiretto), e tanto meno a una specifica fonte televisiva. Sembra che l’abbiano sempre saputo, per frammenti anonimi galleggianti nell’aria.[17]

Portelli constata come gli stessi genitori (la seconda generazione) non fossero meglio informati o avessero opinioni più chiare in merito.[18] Inoltre, registra in quegli anni il rafforzamento dell’attivismo politico di destra, la modificazione del paradigma memoriale e l’indebolimento generale della coscienza storica:

La scuola, il cinema, la televisione sono fonti essenziali di informazione, ma contribuiscono anche alla confusione fra le Fosse Ardeatine e i campi di sterminio: a scuola, un medesimo tono morale accomuna Fosse Ardeatine, nazismo, genocidio; in televisione, li confonde una fruizione più distratta, sotto il segno dell’orrore e dell’ambiguità (Combat film) o della routine […]. Aggiungiamoci che spesso questi documentari, o anche film come Schindler’s List, sono visti in ambito scolastico, e il cerchio si chiude.[19]

Il quadro secondo Portelli non è catastrofico, perché nella perdita delle strutture preesistenti che per decenni avevano tramandato (e deformato) la memoria dell’evento storico, si libera comunque un potenziale: «la mancanza di memoria infatti comporta una perdita di senso e di conoscenza, ma apre anche degli spazi di immaginazione e di rielaborazione. Nella misura in cui sono meno informati, i ragazzi sono a volte indotti a cercare di ricostruirsi interpretazione e senso da soli, a partire dai pochi dati a disposizione.»[20] In assenza di informazione storica e contestuale, i giovani sono indotti a cogliere il lato umano (e disumano) della guerra in modo più universale.[21]

L’occupazione militare ottant’anni dopo: la memoria della terza generazione nelle interviste del progetto MemoGen

Dall’inizio del XXI secolo la ricerca storica dell’occupazione militare in Italia ha fatto diversi passi in avanti, più sul versante tedesco che su quello alleato, con risultati talora notevoli.[22] Tuttavia queste ricerche non sempre offrono un quadro di come l’occupazione militare venga effettivamente ricordata a distanza di ottant’anni e tre generazioni da chi non coltiva lo studio della storia contemporanea.

Il progetto MemoGen si colloca nella tradizione della storia orale di Revelli e Portelli e raccoglie videointerviste con donne e uomini nati tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso per capire come la memoria della seconda guerra mondiale si sia trasformata negli ultimi cinquant’anni.[23] Le storie di famiglia si tramandano secondo uno schema già descritto da Portelli, cioè come «storie familiari di appropriazione per contatto dell’evento storico (“io c’ero”, anzi, “mio padre c’era”), articolate con classiche narrazioni di pericolo scampato»,[24] che ingenera il piacere di narrare e condividere quello che viene spesso percepito come un «racconto mitico, teso come tanti altri a rafforzare il rapporto personale di chi narra con un evento significativo della Storia.»[25] MemoGen conferma inoltre alcune tendenze già notate da Portelli, prima fra tutte la prevalenza della «vaghezza» delle reminiscenze ricevute dalla famiglia in forma di ricordi orali, poi dalla scuola, dalla televisione e dal cinema e più raramente dai libri.

In questo articolo mi concentro su ventiquattro testimonianze in cui il tema dell’occupazione militare viene affrontato in un contesto regionale abbastanza ampio (Piemonte, Lombardia, Liguria, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo, Sardegna, Campania, Puglia e Sicilia) da persone nate tra il 1959 e il 1989.[26]

Tornando all’argomento dell’occupazione, quella che lascia segni più vistosi nella memoria delle famiglie rimane quella tedesca, il cui ricordo oscilla tra la semplice convivenza e il trauma della violenza, esperienze fra cui la popolazione cercava di trovare un difficile equilibrio. Così, se c’è chi ricorda una presenza relativamente tranquilla di soldati che forse erano anche «brave persone»,[27] in generale, però, i ricordi insistono sull’insofferenza nei confronti degli occupanti:

I tedeschi s’erano fatti prendere universalmente in antipatia perché, se c’è una cosa in cui coincidono i racconti di tutti i nonni è che questi ne facevano abbastanza, per cui erano sempre visti come personaggi da cui stare lontani il più possibile insomma. […] Mi raccontavano che come al solito ogni tanto arrivavano lì [in campagna dov’erano sfollati da Milano, n.d.r.] i tedeschi, gli portavano via tutto quello che avevano e se qualcuno provava a dire qualcosa lo portavano via, quindi avevano un rapporto molto timoroso, nel senso, erano felici di vederne il meno possibile e per fortuna grosse cattiverie non gliene hanno mai fatte, però sapevano benissimo che erano persone pericolosissime, per cui erano molto accondiscendenti e non vedevano l’ora che come erano arrivati se ne andassero. […] Mio nonno faceva il calzolaio, mi diceva che questi ogni tanto andavano da loro e si facevano risuolare le scarpe, gli ufficiali, in dodici, e poi non lo pagavano […] queste piccole angherie.[28]

A questo racconto ambientato nel Pavese fa eco un altro risalente al 1944 e proveniente dalla zona di Cassino, dove il nonno della testimone decise di andare di notte a riprendersi le sue cose dalla casa occupata dai tedeschi:

Prende e va, di notte. Va, entra nella parte bassa della casa, dove c’erano tutte le cose, e mia madre racconta che lui raccontava: «io sono entrato al buio. Sapevo che c’erano i tedeschi, ma io dovevo andare lì a prendere quelle cose.» Quindi lui cammina sui corpi di questi soldati che dormivano – cioè questo è il racconto –, nel buio prende quello che doveva prendere e poi scappa. […] In questo racconto, che io non ho mai sentito direttamente da mio nonno, c’è molto in parte della percezione di mia madre nel sentire lui che raccontava, e poi anche un po’ di favoleggiamento.[29]

Col senno del poi, la testimone ammette che il gesto appare al limite dell’inverosimile, considerando che al narratore maschile, nel suo contesto famigliare, era riconosciuta un’autorità quasi incontestabile: «non ho mai capito com’è possibile che uno entri e si metta a camminare sulle persone senza che nessuno gli spari. Considerato che poi di storie di gente presa a colpi di pistola a caso, nel campo, ce ne sono. Va bè, comunque questa è una di quelle storie che non ho mai contestato.»[30] Questa semplice osservazione apre un vasto scenario di riflessione critica e metodologica, la quale per ragioni di spazio non può essere affrontata qui ma merita comunque una breve delucidazione. I ricordi che emergono dalle videointerviste sono indiretti, mediati, interpolati da molteplici fattori, all’interno e all’esterno delle famiglie, e subiscono nel corso del tempo modificazioni e contaminazioni. Quanto di questi ricordi è storicamente attestato e dimostrabile? Quali sono le eventuali tracce che ne dimostrano la realtà storica? In alcuni casi è possibile risalire a una circostanziale dimostrabilità dei fatti, là dove nei racconti esistano anche riferimenti precisi che permettano l’avvio di ricerche d’archivio o assimilabili.[31] Tuttavia, la ricostruzione esatta di fatti e aneddoti non è lo scopo primario del progetto, tanto più che il campione degli intervistati non può avere nozioni di prima mano. Quello che interessa è la percezione e la trasmissione della memoria, i processi di modificazione e obliterazione, e l’individuazione dei nuclei di significazione (spesso di carattere emotivo ed etico) che contribuiscono a mantenere viva la memoria anche in assenza di dati esatti e conoscenze precise.

In generale, la paura e il senso del pericolo costituiscono il baricentro emotivo dei ricordi tramandati, paura dei tedeschi e anche dei partigiani, come in questo racconto ambientato a Genova:

Mio nonno materno lavorava presso l’Italcementi. Con l’8 settembre, la ditta Italcementi andò sotto il controllo dell’organizzazione Todt tedesca, che si occupava della produzione di materiali di interesse bellico nel Reich e anche nei territori di occupazione. […] Quindi mio nonno si ritrova a lavorare per i tedeschi, ad avere una tessera con un’aquila nazista stampata sopra, la sua foto, il suo nome. E questo, insomma, creava delle preoccupazioni perché c’era la Resistenza, c’erano i partigiani. […] Quindi c’era la grande paura primo perché se avessero vinto i partigiani, un giorno qualcuno avrebbe chiesto conto di questa cosiddetta collaborazione. E poi c’era anche la paura però dei rastrellamenti per essere inviati al lavoro coatto in Germania. […] Quando mio nonno dormiva a casa, se era giorno e lui doveva riposarsi perché aveva fatto la notte, dormiva nel suo letto. Se invece era nelle ore notturne, mio nonno non dormiva nel letto ma andava nel sottotetto della casa e si nascondeva, perché avevano una paura terribile dei tedeschi.[32]

La paura dei partigiani si ritrova ancora in un racconto delle campagne del Bresciano:

C’era stato un episodio, in cui adesso non so che ruolo abbia avuto la mia famiglia, però, c’era praticamente un soldato tedesco che s’era nascosto nelle campagne, presso il paese di Calvisano, quasi al confine con Mantova. […] E mio nonno è andato da questo tedesco e gli ha detto di scappare perché era braccato insomma. Forse lo sapeva già, ma gli ha detto di lasciare il paese. Io non so che posizione avesse mio nonno a quel tempo [ride], perché mi sembra che aiutare un tedesco… però è aiutare un essere umano insomma, alla fine. […] In realtà mio nonno aveva paura di avvicinare questo tedesco […] se l’avesse nascosto sarebbe stato un problema. Quindi non si è mai azzardato a ospitarlo. Infatti anche mia mamma al tempo aveva setto o otto anni, e io le ho chiesto «ma tu l’hai conosciuto il tedesco? L’hai visto?» Lei m’ha detto «no no, assolutamente.» Nessuno lo voleva avvicinare. Il nome è rimasto, Robert.[33]

Se in questi racconti i tedeschi sono ricordati come ospiti mal sopportati e indesiderati, in altri casi i ricordi si legano invece a episodi drammatici di violenza o di deportazione:

Mio padre aveva 13-14 anni, […] uno dei racconti che ha sempre fatto era quello di essere stato preso insieme a tanti altri ragazzini dell’età sua dai tedeschi per andare a spalare la neve della strada che portava su a Pescasseroli e poi verso Napoli. E quindi bisognava spalare la neve perché altrimenti non sarebbero potute passare le truppe, i camion. […] Nel mio paese in Abruzzo ci sono stati i tedeschi. Avevano proprio una sede che era in una palazzina vicina a quella dove adesso abito io. E invece, quando parlava di questa palazzina, e lo faceva spesso perché per venire da me ci doveva passare all’andata e al ritorno, il discorso andava lì: «perché tu non sai che cosa è successo lì dentro, qui sono successe brutte cose». Lì c’era la rabbia, come posso dire, l’idea di non dire… perché poi in realtà alla domanda precisa su che cosa fosse successo non è che sapesse rispondere. Lui diceva sempre «qui si sentivano le urla». Lì c’era la dimensione proprio del ricordo negativo.[34]

Un’altra testimone abruzzese ricorda un grave episodio di criminalità da parte dei tedeschi, raccontando che il nonno paterno fu arrestato e sepolto vivo nel paese di Trasacco, per aver aiutato qualcuno a nascondersi.[35]  Spostandosi nell’alto Lazio, si incontra poi un ricordo di molestie sessuali:

Bagnaia era all’epoca un borgo abbastanza importante perché i tedeschi avevano preso la Villa Lante, che era la villa principale, e avevano fatto un posto di comando lì. […] Mia nonna mi raccontava dei fatti inerenti ai tedeschi che creavano questo clima di terrore anche nella città, tant’è vero che una sua sorella, siccome era spaventata da questi tedeschi che, purtroppo, compivano anche atti abbastanza brutti nei confronti delle donne, una volta si trovò davanti a un tedesco, era sera, stava in un vicolo e questo la voleva molestare, e le diventarono tutti i capelli bianchi dalla paura.[36]

Un altro ricordo particolarmente drammatico proviene da un paese dell’entroterra ligure:

Papà nel periodo dell’occupazione tedesca – era del Ventotto, quindi avrà avuto dai quindici ai diciassette anni, era troppo piccolo per andare in guerra ma abbastanza grande per lavorare con la Croce Rossa, e i tedeschi dopo le esecuzioni dei partigiani lo obbligavano, lui e un altro paio di ragazzini, a andare a prendere i cadaveri e portarli al cimitero. Questo ha segnato molto mio padre, ma ne ha sempre parlato poco. Ha iniziato a parlarne con la vecchiaia. Andando avanti con gli anni ha iniziato a raccontare, raccontava gli episodi dei tedeschi, della loro aggressività nei confronti della popolazione. Lui era stato arrestato una sera – i tedeschi obbligavano i paesani in grado di lavorare a andare a riparare i ponti che venivano distrutti. […] Una sera li prendono, li chiudono in un edificio scolastico e la mattina dopo gli dicono: «bene, potete andare a casa.» Loro erano rimasti un po’ così e poi avevano scoperto che erano stati uccisi due militari tedeschi in un attacco partigiano; quindi, loro erano stati presi per essere giustiziati secondo la legge di guerra. Solo che il parroco del paese era andato dai tedeschi e gli aveva detto: «no, vi siete sbagliati, non sono stati uccisi nel territorio del paese, ma in quello a fianco.» E quindi ha avvisato i cittadini del paesino a fianco, e quelli sono scappati. I tedeschi, il giorno dopo hanno bruciato mezzo paese ed è finito tutto così. […] Papà ha sofferto molto perché uno dei suoi più cari amici è stato giustiziato dai tedeschi e lui ha dovuto raccogliere la salma. Questo ha segnato profondamente tutta la sua vita e lo ha reso – mio papà era un democristiano – profondamente antifascista.[37]

La memoria traumatica della violenza si trasmette fra le generazioni anzitutto sul piano della compartecipazione emotiva, soprattutto quando i testimoni cercano di mettersi nei panni dei loro parenti che al tempo della guerra erano bambini, interiorizzando così con un atto di immaginazione i sentimenti di paura e dolore che dovettero provare. Questo meccanismo si ritrova anche in altri due casi, il primo dei quali proveniente dal Viterbese:

Mio zio di cinque anni e mia zia di sette o otto si ritrovarono davanti a un sequestro da parte delle SS, che sono entrate dentro casa, hanno sfondato la porta. Si sono visti questi tre o quattro tizi col trench nero e la P38 puntata che cercavano mio nonno e l’hanno preso e portato via. I miei zii non l’hanno mai raccontata questa storia. Mio padre mi dice che dopo tanti anni, lui era già molto grande, [lo zio] s’è un po’ liberato da questa vicenda.[38]

Nel racconto di una testimone napoletana, invece, il ricordo della cattura e deportazione del nonno perde in parte la connotazione drammatica e assume invece un carattere quasi rituale, come una storia in cui si deposita una parte importante della biografia familiare:

C’è sempre stata da parte di mio padre una trasmissione dettagliata di tutta la storia, quindi sempre, nelle domeniche a casa o nelle festività, papà ama ricordare l’esperienza del nonno che io non ho conosciuto. […] La vicenda andò così, che un giorno lui decise di andare a cercare qualcosa da mangiare. La sorella con una specie di sesto senso insisté affinché lui portasse con sé il cappotto, ma lui diceva «torno presto, non c’è bisogno, devo semplicemente cercar qualcosa da mangiare.» «Porta il cappotto!» Lui afferra il cappotto, scende e si rende conto che la strada di casa sua – lui viveva alla Pigna Secca a Napoli, un quartiere molto popolare – era stata chiusa da due camionette, alle due estremità, dai tedeschi. Ormai erano nemici in casa e andavano in ritirata, e avevano avuto l’ordine di rastrellare civili. Per cui lui non poté più scappare e fu arrestato, in un certo senso, e messo su una camionetta.[39]

Ricordi episodici di questo tipo si riverberano attraverso le storie, ripetendosi con una certa regolarità e suggerendo che a distanza di ottant’anni le persone hanno un’idea della vita quotidiana sotto l’occupazione tedesca come di un’esistenza precaria e pericolosa, in cui si viveva esposti all’arbitrio e alla fortuna. Un solo testimone tra quelli menzionati conserva invece un nucleo di ricordi famigliari la cui traumaticità non dipende da eventi subiti direttamente ma dall’appartenenza a un’intera comunità vittima di una strage nazista:

Grugliasco è stata vittima di un’atroce rappresaglia da parte dei nazisti durante la ritirata, che hanno fucilato sessantasei cittadini in piazza, giusto per rappresaglia perché comunque non avevano più niente da perdere. Avevano già perso la guerra, perché la guerra di fatto era finita. Questi in ritirata hanno comunque fatto questo scempio e questa drammatica azione che ha segnato tutto il paese. Tutt’ora vengono ricordati questi martiri perché furono fucilati in piazza, obbligando la gente ad assistere al massacro. E questo mio nonno me l’ha sempre raccontato come uno di quei momenti veramente drammatici che ha segnato un po’ tutti.[40]

In quest’ultimo caso, la vicenda narrata è di natura collettiva (il paese stesso è vittima) e si colloca su quel terreno dove la memoria e la storia si saldano in maniera stabile. In altri casi, invece, come quello di un testimone della periferia romana, i tedeschi sono una presenza vaga che non si connette a episodi precisi ma a un sentimento generale di paura (ancora una volta ritrovato tramite l’immedesimazione con il genitore-bambino, autore originario dei ricordi):

Mio padre, aveva quattro o cinque anni, ricordava il terrore che mettevano i tedeschi quando passavano con le camionette oppure anche a piedi, in divisa. […] Nella zona loro, Magliana Vecchia, loro erano accampati lì. Parliamo di ricordi di un bambino, la paura solo nel vederli, dagli abiti che indossavano, come camminavano, come marciavano, insomma come erano sistemati rispetto alla miseria che girava in quel tempo, sembravano veramente dei marziani, forse. […] Poi si è passati nel giro di breve tempo, di qualche anno, da una presenza militare tra virgolette amica, alleata, diciamo così, a una presenza militare che invece alleata non lo era più ma che era diventata nemica. […] Dal picco, dal momento più alto al momento della fuga, quando scappavano e si lasciavano tutto alle spalle. […] Mi raccontava di queste cose che anche loro trovavano nei giardini e negli orti.[41]

L’immagine dei tedeschi a distanza di molti anni conserva così molti tratti dell’occupante feroce e temibile, ma un testimone ne parla invece anche con un misto di distacco, inimicizia e pietà, riportando i ricordi della madre che nell’autunno del 1943 era in Sardegna:

Ha fatto in tempo a testimoniare la fuga delle forze di occupazione tedesche dall’isola. Peraltro mia madre odiava allegramente i tedeschi che le avevano ammazzato il padre […]. Ma mi raccontava che questi ragazzi le facevano pena perché passavano per le case a chiedere uova e da mangiare, e poi ha vissuto in diretta il loro annientamento, perché subito dopo l’evacuazione sono stati massacrati in mare. Da terra riuscivano a vedere i lampi delle esplosioni. Pensava con malinconia a questo.[42]

Indicativo è anche il ricordo di un episodio avvenuto nell’Agro Pontino che rivela come spesso gli effetti negativi dell’occupazione non dipesero da premeditazione o crudeltà, ma da incuria o ignoranza, il che diminuisce il senso di ostilità e di odio nei confronti degli occupanti:

Un altro episodio che mio padre ricorda spesso è che sempre a causa tra virgolette dei tedeschi, che di fatto si erano stabiliti nel podere e quindi lo gestivano in qualche modo, lui ricorda la morte di questo vitello che, chiaramente, avendo il bestiame, era importante. I tedeschi non avevano capito come andava nutrito questo vitello, che fondamentalmente morì perché l’avevano allattato troppo. Quindi loro persero un vitello che era prezioso per l’economia.[43]

Il danno causato dall’occupazione qui è preterintenzionale, il che suggerisce che l’idea dei tedeschi come criminali non sia più monolitica come in passato. In questo caso compaiono come «ospiti» scomodi e perniciosi, ma non gratuitamente crudeli. Lo stesso testimone ricorda un «cimelio» lasciato dai tedeschi nella casa di famiglia dopo la ritirata:

Un ricordo invece personale che mi è rimasto è che nel garage, quello che era una sorta di magazzino o capanno degli attrezzi […], c’era questa tanica di benzina della Wehrmacht. Mi ricordo questa tanica nera, con questa forma un po’ esagonale, diciamo, forze più pentagonale che esagonale, con questi due manici paralleli messi così [fa un gesto con le dita], che avevano lasciato i tedeschi quando se ne sono andati, ed è rimasta in giro per un bel po’. Adesso sinceramente non so che fine abbia fatto.

Int.: E questo cimelio ti affascinava particolarmente quando eri bambino?

Sì, perché era una cosa fuori moda già, non si usava più in qualche modo, le taniche per rifornire i mezzi di carburante erano già un po’ diverse. E mi avevano detto che quella l’avevano lasciata i tedeschi quando se n’erano andati e quindi mi era rimasta la curiosità di capire che cosa ci facevano i tedeschi lì.[44]

La memoria dell’occupazione, in questo caso, è ridotta quasi a una reminiscenza archeologica, là dove la presenza fisica di un oggetto stimola la curiosità infantile nei confronti di un passato che appare enigmatico: «che ci facevano i tedeschi in casa nostra?» è la domanda che a distanza di molti anni rimane come la prima traccia di un rapporto con il passato fatto spesso di impressioni, magari slegate da ogni contesto, eppure tanto vivide da conservarsi nel tempo come segni.

Gli Alleati, invece, sono ricordati anzitutto come autori dei bombardamenti, e ciò giunge perfino a produrre l’identificazione fra americani e criminali in uno dei racconti, il cui autore ricorda che sua nonna, ferita durante un bombardamento nel 1943, abortì:[45]

Per i miei nonni paterni gli alleati sono stati visti come i liberatori ma anche come quelli che hanno distrutto la loro città, per cui c’è sempre stata una forte… è una cosa combattuta il sentimento nei confronti degli americani, anche se in realtà poi li hanno visti più come dei liberatori perché chiaramente, vivendo loro in campagna, dove spadroneggiavano i tedeschi e i fascisti, hanno avuto i loro problemi anche loro insomma. […] Mio papà il primo americano che ha visto era morto, era il pilota di un aereo che è stato abbattuto vicino alla loro fattoria. Li ha visti poi come dei liberatori che gli davano sostanzialmente le sigarette, lui ha iniziato a fumare a otto anni e non ha più smesso. Però non ne comprendeva a fondo l’immagine.[46]

Similmente, il testimone di MEMO22 ricorda la presenza degli americani come transitoria e superficiale, e molto meno invasiva di quella tedesca:

Un’altra cosa particolare che è rimasta impressa a mio padre e me la raccontava di quando arrivarono gli americani, è il fatto che quasi si mettessero a giocare al tiro a segno con delle draghe che stavano sul Tevere. Con i carri armati cercavano di colpirle, di affondarle insomma [ride]. Era una cosa così, tanto tedeschi non ce n’erano più.

Int.: Con gli americani hanno mai avuto qualche relazione?

Con gli americani non tantissimo, rispetto alla convivenza, tra virgolette, con le truppe tedesche […] che, ripeto, incutevano terrore e che però, almeno per loro, non hanno comportato grossi danni. Con gli americani invece le esperienze sono di chi li ha visti arrivare, li ha visti passare, li ha visti andare via. Non c’è stato un tempo di convivenza, c’è stato un passaggio.[47]

Il tempo della convivenza è fondamentale affinché la presenza di un esercito straniero si fissi nella percezione e poi nei ricordi come una occupazione, e questo si percepisce infatti anche in altre testimonianze dove si parla degli Alleati sempre in termini di movimento, arrivo e passaggio, ma raramente di stanzialità e frequentazione. Il loro arrivo fu fonte di grande paura nei ricordi di una testimone siciliana:

Le donne della mia famiglia raccontavano molto. […] La mia bisnonna, a lei venne il diabete con uno spavento vedendo un soldato nero, americano [ride]. Quando vide quest’uomo saltare giù dalla camionetta, s’è terrorizzata e le è venuto il diabete.

C’erano tanti sbandati, c’erano tanti americani ubriachi, e questo è rimasto nella memoria collettiva. Degli americani ubriachi che stupravano [esita]; ma magari probabilmente le toccavano soltanto. Però, per donne come mia nonna, anche solo metterle una mano sulla spalla era un insulto alla loro femminilità.

Int.: Certamente, in quel contesto poi la paura ingigantisce ogni tipo di incontro ravvicinato in maniera negativa, è ovvio.

Sì. Per esempio giravano voci – questo me l’ha raccontato una signora – giravano voci che gli inglesi avrebbero ucciso tutti i preti e stuprato tutte le donne. E quindi loro stavano nascoste nelle grotte […] in campagna, col terrore che gli inglesi avrebbero potuto stuprarle o uccidere i preti.

Int.: E tu sai chi faceva circolare questa voce?

I preti soprattutto.

Int.: I presti stessi?

I preti e i fascisti.

Int: Quindi era una forma di propaganda molto bassa, tesa a colpire l’immaginario del popolo col terrore.

Penso si facesse leva sull’ignoranza diffusa, ben radicata dalle mie parti.[48]

Un effetto particolarmente traumatico del passaggio degli Alleati resta impresso nei ricordi delle «marocchinate»:

A Roma ho avuto testimonianza diretta di quella cosa tremenda che passa sotto il nome delle marocchinate. Testimonianza diretta perché ho avuto pazienti o figli di pazienti che in effetti, quando li ho incontrati gli ho detto «oh, come ti chiami?» e mi aspettavo Mohamed, perché erano veramente… [si mostra il volto con le mani], io un po’ mi umiliavo, mi vergognavo di non aver capito la situazione perché loro mi dicevano, anche un po’ tristemente: «io sono il risultato – la seconda generazione, no? – di questo. Mio padre è molto così, perché è il risultato delle violenze perpetrate dalle truppe marocchine francesi.» […] Ho conosciuto un ragazzo che viveva a Licenza, nel nord del Lazio verso Rieti, e diceva «io ne ho molti di amici così», perciò l’impronta di questa cosa è presente nel nostro territorio e anche in abbondanza, direi. […] Io ho visto il figlio o il nipote di questa situazione, e lui stesso era consapevole di questa situazione e non ne parlava in maniera allegra. In realtà, a te, che te importa ormai, no? E invece evidentemente si portavano questa tristezza attraverso le generazioni. La madre gliel’aveva raccontato come «purtroppo è così», perché magari il ragazzo è andato a chiedere alla madre «perché io sono così scuro? Perché sono diverso?» Penso che anche da parte dei genitori, raccontargli il motivo possa essere stato difficile.[49]

La memoria delle violenze perpetrate dagli Alleati, in questo caso specificamente le truppe coloniali francesi, rappresenta una zona d’ombra e di silenzio, non soltanto perché traumatica, ma perché spesso è rimasta a lungo relegata in una dimensione subalterna, come la traccia di un trauma esclusivamente femminile che la cultura tradizionale ha a lungo lasciato in ombra. Tuttavia, come fa notare un’altra testimone del basso Lazio, ne discende (come si coglie anche dalla citazione precedente) un racconto «razzializzato», che permane nel ricordo della comunità soprattutto in virtù della sua «visibilità» nei tratti somatici degli eredi: «se io ti dovessi dire quante volte ho ascoltato il racconto di mio nonno che scappava dopo aver camminato sui tedeschi e quante volte ho ascoltato questo qui, c’è un rapporto di uno a cento»,[50] afferma la testimone e aggiunge che un fattore cruciale per questo silenzio consiste anche nel fatto i nordafricani autori dei crimini non fossero considerati degli alleati ma dei delinquenti:

Di conseguenza, quando tu mi hai chiesto degli Alleati, la mia mente è andata sugli angloamericani, non è andata sulle truppe coloniali francesi. Quindi credo di averti restituito un’impostazione del discorso che era propria di chi l’aveva subito e l’aveva quindi raccontato a mia madre: «questi erano dei soldati che, poiché avevano perpetrato delle violenze, non potevano essere degli alleati.»[51]

A questa storia si associano altri racconti, riportati dalla testimone, su come i contadini cercassero di nascondere le ragazze all’arrivo di questi stranieri, imbrattandole di sangue di vacca per simulare uno stupro precedente o addirittura, in alcuni casi, murandole vive nelle intercapedini dei muri. Quella delle marocchinate resta una delle eredità più conflittuali e difficili della seconda guerra mondiale in Italia, anzitutto perché, come ricorda Gabriella Gribaudi, si discosta radicalmente dalla narrazione ufficiale,[52] racchiudendo «un dolore che non può essere espresso, che diventa silenzio per lunghi anni e che si esprime non tanto attraverso un rifiuto quanto una distanza consapevole dalla retorica pubblica.»[53] Inoltre, osserva ancora Gribaudi, nella rimozione di questa memoria scomoda e dolorosa pesa anche un aspetto antropologico e culturale:

Non riusciamo oggi a immaginare l’intensità del trauma collettivo; ci è difficile ricostruire i modi attraverso cui le comunità hanno reagito, si sono difese da quella che era stata una ferita collettiva non rimarginabile. L’onore delle donne è un segno distintivo dell’integrità di tutta la famiglia, di tutta la comunità. […] È probabile che siano state le stesse comunità, con il tacito consenso delle donne colpite, a rimuovere il ricordo di ciò che era accaduto, vergognoso e indicibile. La memoria pubblica ha ovviamente assecondato e favorito i sentieri dell’oblio.[54]

Colpisce il fatto che dai racconti di terza generazione il ricordo della violenza affiori soprattutto in termini razziali. Cambia forse il focus attraverso cui viene rielaborato il ricordo, ma resta lo sgomento con cui sono percepite la violenza e la sofferenza a distanza di decenni, segno che la ferita rimane dolorante. Ancora Gribaudi osserva che nel dopoguerra «la sofferenza patita dalle violentate era stata considerata alla pari con le altre offese; anzi, se non aveva lasciato tracce persistenti negli anni, neppure più considerata.»[55] È comprensibile, allora, che la traccia della violenza incisa nella fisiognomia degli eredi – la traccia «razziale» – finisca perfino per sostituirsi, dopo ottant’anni, alla memoria stessa della violenza sessuale.

La presenza degli Alleati, in generale, appare molto più sfumata di quella tedesca nei ricordi di terza generazione, e raramente i testimoni si soffermano a parlare della loro presenza sul territorio, con l’eccezione di un racconto relativo all’occupazione americana di Taranto:

A Taranto i tedeschi non c’erano… c’erano gli americani. Erano stati occupati dagli americani, non liberati!

Int.: In che senso? Perché mi incuriosisce questa percezione degli americani.

Tanto per cominciare la famiglia di mia madre erano monarchici e uno zio di mia mamma – anche se io non sono molto d’accordo con questa cosa qua, però è storia – aveva partecipato alla marcia su Roma, quindi diciamo che loro erano comunque pro monarchia, pro governo Mussolini. Sono scelte opinabili dal punto di vista storico, però a quel tempo quelle erano state per loro libere scelte. Mio nonno aveva una piccola industria e durante la guerra metà dei locali erano stati sequestrati dai militari a fini bellici. Quando sono arrivati gli americani gli hanno sequestrato l’altra metà, dandogli dei soldi, ma erano soldi di poco valore con cui poi alla fine non facevi nulla, quindi loro si sono sentiti un po’ occupati. Non hanno vissuto la liberazione… non avendo vissuto l’occupazione tedesca. Loro durante l’epoca fascista stavano bene, poi c’è stata la guerra, ma i tedeschi non hanno mai fatto la guerra con loro. […] Io non ho mai percepito la liberazione degli americani di Taranto come quelli carini che arrivano e ti danno il chewingum, le caramelle e il cioccolato. Sicuramente gli avranno dato anche questo. Però quello che aveva colpito la mia famiglia era stato il fatto che questi sono arrivati, «ci serve la tua industria, ciao, ce la pigliamo, arrivederci e grazie.»

Sicuramente il cibo è arrivato. Da quel punto di vista lì si stava meglio, io mi ricordo infatti mia mamma diceva che con l’occupazione americana la nonna finalmente cucinava i biscotti, la vita cercava di riprendere in modo un po’ più normale, però ciò che prima era proprio è stato preso senza troppi complimenti.[56]

Il ricordo qui conserva un risentimento che attraversa due generazioni, finendo con il formare un’immagine ambigua degli americani come liberatori ma soprattutto come occupanti, comunque vincitori e quindi liberi di imporre le proprie regole. La stessa percezione si ripresenta, stavolta in chiave quasi picaresca, in un racconto proveniente da Cagliari:

Int.: Di questi americani, che cosa ricordava tuo papà, oltre la cuccagna?

Solo la cuccagna, belli, contenti, allegri, sempre con la cingomma in bocca, masticavano, avevano tanto da mangiare, tanto da mangiare. Lui e suo cugino hanno poi avuto l’idea di derubare un camion americano e di portar via i barattoli di pelati, non l’avevano mai visti quindi era una cosa… però, lo zio Federico è stato beccato. Allora il maggiore americano ha detto [mima l’accento americano]: «Ah, tu, pomodori? Adesso mangiare tutto.» [L’intervistatore ride]. Un chilo? Avevano barattoli da dieci chili, gliene ha fatto mangiare fino a esaurimento scorte…

Int.: L’ha quasi ammazzato.

L’ha quasi ammazzato, con diarrea per giorni tanto che zio Federico, il cugino di babbo, per tutta la vita non ha mai più voluto mangiare la pasta col sugo di pomodoro, mai più.

Int.: Ti credo!

Però del resto allegri, contenti, buttavano le caramelle dal camion e tutti a rincorrere, e poi avevano questi barattoli di latta – aveva un modo di raccontare – e dentro c’era un pollo intero […]. La cuccagna, niente di negativo.[57]

L’ultimo racconto che vorrei citare proviene invece dal fronte adriatico, precisamente dalle Marche e, come il precedente, insiste su una ricezione non drammatica dell’occupazione militare:

Quando c’era l’occupazione tedesca lei [la nonna del testimone, n.d.r.] usciva (non si sapeva che fosse ebrea) e ricordava che c’erano questi bei soldati tedeschi, ma era un racconto abbastanza bizzarro. Poi quando ci fu la liberazione, arrivarono i soldati polacchi e allora lì mia nonna proprio impazzì perché c’erano sempre balli, cose… mi raccontava sempre di questo soldato polacco che si era perdutamente innamorato di lei e fece venire il padre dalla Polonia perché voleva addirittura chiederla in moglie, poi mia nonna rifiutò, ma insomma. Sia del periodo della guerra vera e propria, proprio quando ancora c’erano i tedeschi, che del successivo momento della liberazione, mia nonna aveva questo racconto molto… infantile se vuoi.[58]

Se dunque, come afferma Passerini, «lavorando con la memoria degli individui si ridisegna il rapporto fra oggettività e soggettività come categorie epistemologiche e psicologiche»,[59] dalla selezione di interviste qui proposta emerge una memoria dell’occupazione militare in cui gli aspetti affabulatori, aneddotici o addirittura mitici prevalgono sulla contestualizzazione precisa:[60] I testimoni, quasi sempre sostengono di non aver mai saputo (non di averlo di dimenticato) quali fossero le unità alleate o tedesche coinvolte nei loro racconti. Si tratta di un’informazione che forse non è mai transitata nei racconti domestici e pertanto la presenza degli occupanti sfuma in una generica immagine attorno alla quale si dipanano considerazioni etiche in cui gioca un peso notevole la componente emozionale. Che dopo ottant’anni il passato del conflitto rimanga nell’orizzonte delle persone in termini emozionali, spesso accompagnati dalla meraviglia, è forse il dato più interessante. Il testimone di MEMO1, ricorda che i racconti della nonna marchigiana suscitavano in lui grande curiosità, «perché erano delle storie che ti sembravano incredibili e sembrano tutto sommato anche oggi incredibili, son cose che sono del tutto al di fuori del nostro vissuto e della nostra esperienza, quindi anche quando sei bambino percepisci il fascino anche terribile della guerra.»[61]

L’incredulità di fronte a esperienze lontane dal proprio orizzonte suscita spesso un sentimento di stupore e affascina, ma come suggerisce il testimone di MEMO55, si tratta pur sempre di «storie dure e crude, che adesso come adesso sarebbe impensabile. Uno non ci pensa che sono state fatte certe cose, sia la fame, sia la povertà, il rischio della vita, nel periodo in cui c’era un invasore nel nostro paese, chiamatelo come ve pare, era un invasore del nostro paese, non era un alleato ma era un invasore.»[62] Questi ricordi acquisiti in età infantile, rivisitati in età adulta si modificano e vengono rivalutati alla luce di conoscenze più articolate, e sottoposti a giudizi più consapevoli. Il fascino iniziale viene così a equilibrarsi in un sistema di nozioni acquisite nel tempo, forse vaghe e imprecise, ma non necessariamente stereotipate. I tedeschi sono ricordati come invasori pericolosi e indesiderati, ma nessun testimone ne parla con odio o disprezzo (diversamente dai testimoni diretti che Revelli intervistava negli anni Settanta); e gli Alleati sono descritti come liberatori, a volte «scomodi» e poco idealizzati, quasi delle comparse nelle storie delle famiglie e delle comunità.

In conclusione, riprendendo un pensiero di Alessandro Casellato, quanto più il passato si allontana dall’orizzonte dell’esperienza, tanto più le storie individuali si rivelano capaci di comunicare, produrre senso e trasmettere emozioni.[63] Lavorando con racconti di persone che non hanno vissuto né i fatti menzionati né il contesto in cui quei fatti si verificarono, si deve tenere conto delle emozioni in quanto fattori che contribuiscono tanto alla produzione quanto alla deformazione dei ricordi. La testimone di MEMO62 introduce il ricordo della deportazione del nonno da Napoli parlando di «piccola epopea», e un altro afferma:

Le storie, come tutte le storie… sono storie [ride], e quindi sono spesso distanti dalla realtà, o magari sono una realtà rivista, rivista in base alla percezione che loro hanno avuto e anche rispetto magari alla storia che hanno vissuto dopo. […] Ma mi piace così in questo caso: mi piace così, ricordarmi i loro racconti e il modo in cui loro hanno visto la loro vita in quel momento.[64]

I ricordi dei nonni e dei genitori, a distanza di ottant’anni dal conflitto, appropriati, filtrati e deformati, sono tradotti e conservati nel presente, adattati a un orizzonte di attesa molto diverso da quello in cui si svolse l’occupazione militare dell’Italia nel 1943-1945. Ci si potrebbe aspettare che, non trattandosi di testimoni diretti, gli intervistati di MemoGen abbiano un rapporto distaccato con la memoria tramandata attraverso due o tre generazioni, ma non è così. Poiché i ricordi che condividono provengono dalla sfera affettiva e familiare, la partecipazione emotiva e intuitiva è profonda: il racconto di quelle esperienze può mancare di precisa contestualizzazione storica, ma si orienta in modo accurato in senso etico tramite un atto di compartecipazione, là dove i testimoni ritrovano con i ricordi sentimenti ed emozioni che provavano quando i loro parenti raccontavano. Poiché dell’occupazione militare si tramandano non solo gli aneddoti, ma gli stati emotivi che si sono sempre accompagnati al loro racconto all’interno delle famiglie, l’attendibilità specifica di questi ricordi consiste nel fatto che, «anche quando non corrispondono agli eventi, le discrepanze e gli errori sono eventi essi stessi, spie che rinviano al lavoro nel tempo del desiderio e del dolore e alla ricerca difficile del senso.»[65] I testimoni si appropriano delle storie del passato all’interno del proprio orizzonte d’attesa mediante un atto di partecipazione simpatetica, avviando così nuovi percorsi di comprensione e interpretazione.


[1]     «In Italy, Allied soldiers behaved more as occupiers than as liberators, showing little concern for the local population.» G. Gribaudi, O. Wieviorka and J. Le Gac, Two Paths to the Same End? The Challenges of the Liberation in France and Italy, in S.-L. Hoffmann, P. Romijn, S. Kott e O. Wieviorka (eds.), Seeking Peace in the Wake of War. Europe 1943-1947, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2015, pp. 91-116 (p. 98).

[2]     M. Pretelli e F. Fusi, Soldati e patrie. I combattenti alleati di origine italiana nella Seconda guerra mondiale, Bologna, il Mulino, 2022, p. 231.

[3]     Ricordo T. Baris, “Le corps expéditionnaire français en Italie: Violences des «liberatéurs» durant l’été 1944 (French Expeditionary Corps in Italy: Violence of the ‘Liberators’ in the Summer of 1944)”, Vingtième siècle, vol. 93 (2007), 47-61; J. Le Gac, Vaincre sans gloire. Le corps expéditionnaire français en Italie (novembre 1942-juillet 1944), Paris, Les Belles Lettres, 2013; D. Porch, Resistance and Liberation. France at War, 1942-1945, Cambridge, Cambridge University Press, 2024 (in particolare il capitolo 3, Triumph and Dishonor in Italy, pp. 161-242).

[4]     Una ricognizione estensiva dei molti contributi storiografici sull’argomento prodotti in Italia sarebbe impossibile qui, senza contare anche il numero di testimonianze autobiografiche pubblicate anche dopo il conflitto dai protagonisti che combatterono in Italia tra il 1943 e il 1945 nei diversi schieramenti. Ricordo qui, sinteticamente, solo alcuni titoli per inquadrare la riflessione storiografica sull’occupazione (soprattutto tedesca): E. Collotti, L’occupazione tedesca in Italia negli anni 1943-1945, in I. Tognarini (a cura di), Guerra di sterminio e Resistenza. La Provincia di Arezzo, 1943-44, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1990, pp. 23-38; P. Pezzino, Paolo e M. Battini, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro: Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; C. Gentile, Wehrmacht und Waffen-SS im Partisanenkrieg: Italien 1943-1945, Paderborn, Schöningh, 2012; G. Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-1944, Torino, Bollati Boringhieri, 2005; e D. Susini, Vittime e carnefici. Le stragi nazifasciste lungo la Linea gotica orientale, Roma, Donzelli, 2024. Tra i volumi collettanei di particolare rilevanza ricordo inoltre G. Fulvetti e P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, il Mulino, 2016.

[5]     S. Landi (a cura di), La guerra narrata. Materiale biografico orale e scritto sulla seconda guerra mondiale raccolto a Certaldo, Venezia, Marsilio, 1989; G. Contini, La memoria divisa, Milano, Rizzoli, 1997; R. Di Lieto, Voglia di raccontare. La seconda guerra mondiale nei ricordi degli abitanti della Costa d’Amalfi. Testimonianze da fonti orali, Amalfi, Officine Zephiro, 2014; Montese: 1943-1945, Bologna, Scuola Grafica Salesiana, 1975, dal quale sono state estratte numerose testimonianze ora riportate nel portale «Sulle orme dei nostri padri», del Museo Iola di Montese. Una visione più ampia sull’uso delle fonti orali per la storia dell’occupazione militare dell’Italia si ha in G. Gribaudi, “Le memorie plurali e il racconto pubblico della guerra: il ruolo delle fonti orali nella riflessione storiografica sul secondo conflitto mondiale”, Italia contemporanea, vol. 275 (2014), 217-249.

[6]     N. Revelli, Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina, Torino, Einaudi, 2005, p. 175.

[7]     Ibidem, p. 294.

[8]     Ibidem, p. 308.

[9]     Ibidem, pp. 409-410.

[10]   Ibidem, p. 373.

[11]   Ibidem, p. 403.

[12]   N. Revelli, L’anello forte. La donna: storie di vita contadina, Torino, Einaudi, 2005, 175.

[13]   «C’è una razza con noi che se vedono una donna diventano matti.» Ibidem, p. 368.

[14]   N. Revelli, Il disperso di Marburg, Torino, Einaudi, 1998, pp. 13, 23-24 e 88.

[15]   Cfr. G. Cinelli, “L’occupazione tedesca nel Cuneese nelle testimonianze dei civili: Il disperso di Marburg di Nuto Revelli”, Il presente e la storia, vol. 70 (2006), 339-352; G. Gribaudi, L’immagine dei soldati tedeschi nella memoria orale della guerra, in A. M. Isastia e F. Niglia (a cura di), Da una memoria divisa ad una memoria condivisa: Italia e Germania nella seconda guerra mondiale, Roma, Mediascape, 2011, pp. 57-72.

[16]   N. Revelli, Il disperso di Marburg, cit., p. 80.

[17]   A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 1999, p. 372.

[18]   Ibidem, p. 373.

[19]   Ibidem, pp. 374-375.

[20]   Ibidem, pp. 375-376.

[21]   Ibidem, p. 377.

[22]   Cfr. T. Rovatti, Sant’Anna di Stazzema. Storia e memoria della strage dell’agosto 1944, Roma, DeriveApprodi, 2004; C. Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Torino, Einaudi, 2015; e G. Gribaudi, Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale: per un atlante delle stragi naziste in Italia, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2003.

[23]   www.memogen3.wordpress.com.

[24]   A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito, cit., p. 9.

[25]   Ibidem, p. 7.

[26]   Prima di procedere, è opportuno spendere qualche parola sul criterio di citazione delle videointerviste, il quale consiste nella scelta di non divulgare le identità dei testimoni, di là dalle richieste esplicite di anonimità. Questa decisione non soltanto risponde a esigenze tecniche dettate dalla normativa europea vigente in materia di privacy (GDPR), ma anche si pone controcorrente rispetto alla tendenza attuale a indebolire il confine fra sfera privata e spazio pubblico riversando l’individualità nella rete. Mentre crediamo che sia fondamentale che i testimoni riconoscano consapevolmente il loro ruolo responsabile nella costruzione di un archivio pubblico, riteniamo che opportuno mantenere la riservatezza della loro individualità nel momento in cui i loro discorsi vengono proposti al pubblico per mezzo della citazione. Su questa impostazione metodologica, che i testimoni sottoscrivono prima di rilasciare le videointerviste, si costruisce il rapporto fiduciario con gli intervistatori Gianluca Cinelli e Patrizia Piredda.

[27]   «Mia zia viveva al centro del paese, il padre e la madre possedevano quello che era all’epoca l’unico spaccio del paese. […] Spesso e volentieri i tedeschi stavano lì dentro, perché vai a prendere le sigarette, perché vai a comprare qualcosa che ti serve, e lei diceva che c’erano quelli cattivi, che diceva avevano questi occhi di ghiaccio quasi, e anche tanti ragazzi che alla fine forse erano anche delle brave persone. Infatti mi ha raccontato una volta che quando sono partiti, che sono andati via, uno è andata a salutare lei e le sorelle perché ha detto “io qui sono stato bene”.» Archivio Ligure della Scrittura Popolare [d’ora in avanti Alsp], f. MemoGen, MEMO39, 9’25’’ – 13’45’’. Int. Gianluca Cinelli (GC). Il fondo è attualmente in fase di allestimento e sarà messo a disposizione del pubblico nel corso del 2025.

[28]   Alsp, MEMO85, 1, 20’30’’ – 22’00’’ (GC).

[29]   Alsp, MEMO104, 2, 4’05’’ – 6’50’’ (GC).

[30]   Ibidem.

[31]   Un esempio si ha nella testimonianza MEMO46, citata più avanti nella n. 33, intervistata da Patrizia Piredda (PP). In quel caso specifico, il fatto menzionato è riportato nell’Atlante delle stragi nazifasciste, del quale la testimone non era a conoscenza prima di svolgere l’intervista. https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=5550.

[32]   Alsp, MEMO77, 1, 14’04’’ – 16’43’’ (GC).

[33]   Alsp, MEMO96, 1, 10’23’’ – 14’19’’ (GC).

[34]   Alsp, MEMO39, 1’48’’ – 5’18’’ (GC).

[35]   Alsp, MEMO46, 1, 2’43’’ – 4’60’’ (PP).

[36]   Alsp, MEMO25, 1, 3’00’’ – 4’17’’ (GC).

[37]   Alsp, MEMO92, 4’55’’ – 7’50’’ (GC).

[38]   Alsp, MEMO69, 15’30’’ – 16’13’’ (GC).

[39]   Alsp, MEMO62, 1’00’’ – 2’36’’ (GC).

[40]   Alsp, MEMO19, 1, 9’13’’ – 10’10’’ (GC).

[41]   Alsp, MEMO22, 4’27’’ – 8’00’’ (GC).

[42]   Alsp, MEMO99, 1, 6’07’’ – 6’50’’ (GC).

[43]   Alsp, MEMO4, 1, 4’08’’ – 4’51’’ (GC).

[44]   Ivi, 4’52’’ – 6’22’’.

[45]   «[Mio nonno] mi diceva “gli americani hanno ucciso tuo zio che non era ancora nato”.» Alsp, MEMO85, 1, 9’25’’ – 9’29’’ (GC).

[46]   Ibidem, 2, 15’53’’ – 17’50’’.

[47]   Alsp, MEMO22, 11’29’’ – 11’56’’ e 17’14’’ – 18’08’’ (GC).

[48]   Alsp, MEMO8, 1, 7’47’’ – 8’08’’ e 8’58’’ – 10’31’’ (GC).

[49]   Alsp, MEMO94, 10’28’’ – 12’24’’ (GC).

[50]   Alsp, MEMO104, 4, 18’03’’ – 18’09’’ (GC).

[51]   Ivi, 20’43’’ – 21’20’’ (GC).

[52]   «Non esiste, credo, memoria più dissonante di queste dalla retorica nazionale.» G. Gribaudi, Guerra totale, cit., p. 528.

[53]   Ibidem, p. 530.

[54]   Ibidem, pp. 530-531.

[55]   Ibidem, p. 568.

[56]   Alsp, MEMO92, 8’32’’ – 11’38’’ (GC).

[57]   Alsp, MEMO64, 7’16’’ – 9’30’’ (GC).

[58]   Alsp, MEMO1, 1, 6’55’’ – 7’50’’ (GC).

[59]   L. Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Scandicci, La nuova Italia, 1988, p. 19.

[60]   Maurizio Gribaudi ricorda che l’aneddoto è una struttura portante e ricorrente nei racconti orali, e funziona simbolicamente rispetto alla cultura dominante da cui il testimone proviene: attraverso esso infatti, per generalizzazione, si manifestano forme di consenso con un’idea diffusa e solidificata di qualche aspetto della realtà vissuta collettivamente. Il problema centrale dunque da affrontare con il testo autobiografico è la deformazione dei fatti. “Storia orale e struttura del racconto autobiografico”, Quaderni storici, vol. 39 (1978), 1131-1146 (p. 1138).

[61]   Alsp, MEMO1, 1, 9’18’’ – 9’40’’ (GC).

[62]   Alsp, MEMO69, 1’55’’ – 3’02’’ (GC).

[63]    A. Casellato, Le guerre non finiscono mai. Fonti orali, storiografia, culture di guerra, in P. Del Negro e E. Francia (a cura di), Guerre e culture di guerra nella storia d’Italia, Milano, Unicopli, 2011, pp. 179-196.

[64]   Alsp, MEMO90, 1, 2’28’’ – 3’22’’ (GC).

[65]   A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito, cit. pp. 18-19.

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