I Balcani nel cinema: storie e immagini di territori occupati tra ex-Jugoslavia e Albania

Ornella Castiglione – Università degli Studi di Milano-Bicocca

DOI 10.53258/ISSN.2785-261X/OI/04/1242

Introduzione

L’articolo si propone di inquadrare le cinematografie di due Paesi dell’area balcanica, quali l’Albania e la ex-Jugoslavia, al fine di individuare dei tratti comuni che permettono di far convergere la lettura di alcune opere significative riguardo alla tematica dei territori occupati. Il corpus maggiore dei film citati è risalente al periodo che va tra la Seconda Guerra Mondiale e la fine della Guerra Fredda. La scelta sul cinema albanese e jugoslavo all’interno del più ampio panorama balcanico è avvenuta per la necessità di circoscrivere un settore privilegiando comunque la continuità geografica ma anche la vivacità artistica ed espressiva di due Paesi che nel corso del Novecento hanno vissuto eventi storici e politici di consistente differenza ma hanno anche condiviso passaggi importanti.

Infatti, sia l’Albania che la ex-Jugoslavia si sono formate a seguito della liberazione dalla dominazione ottomana e hanno subito una politica di occupazione da parte delle potenze occidentali (essenzialmente Italia e Germania) durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel caso dell’Albania, peraltro, le mire colonialiste italiane sono cominciate a ridosso del primo conflitto mondiale in un’ottica di naturale egemonizzazione nel «myth of Italy as an ‘agent of civilization’»[1].

Come si vedrà nell’articolo, il cinema ha saputo tenere conto di questi rivolgimenti politici benché in tempi diversi e con generi e forme differenti in quanto medium che più di ogni altro ha saputo rappresentare il XX secolo ma soprattutto perché, nel caso specifico di questa zona dei Balcani, è stato presente sin dai suoi albori. Inoltre, è stato interessante rilevare il doppio legame tra la dominazione militare italiana in Albania e l’influenza nella cultura visuale esercitata dal nostro Paese, proseguita anche durante il regime instaurato da Enver Hoxha. Questo aspetto assume maggiore rilievo se si considera che «for four decades after World War Two, tiny Albania was hermetically sealed»[2]. Pertanto, indagare il cinema albanese significa, inevitabilmente, trovare uno sguardo “dal di fuori” sul nostro mondo come non è avvenuto, invece, nelle repubbliche appartenenti alla ex-Jugoslavia. Le quali, non solo hanno vissuto internamente situazioni politiche variegate, benché accomunate dalla guida di Tito, ma hanno presentato estetiche ricche di differenti riferimenti all’interno delle quali la cinematografia italiana era solo una delle possibilità. Come osserva Roberto Gritti:

Il sistema comunista, e dunque anche quello dei media, non è mai stato né monolitico, né impermeabile alle influenze esterne. Così, se da un lato, […] il modello sovietico, o meglio stalinista, ha rappresentato per lungo tempo un esempio da imitare, dall’altro non si può sottovalutare l’importanza che hanno avuto […] fattori quali […] i cicli di liberalizzazione politica, un certo grado di decentramento politico-amministrativo o, infine, una sorta di pragmatismo o di dissenso ideologico[3].

Poiché le cinematografie dei due Paesi si iscrivono geograficamente nell’area balcanica, il primo quesito riguarda proprio se si possa parlare di cinema balcanico e si prova a darne una definizione tenendo conto del punto di vista dei suoi esponenti. Chiamati ad esprimersi se esiste un cinema balcanico, alcuni registi appartenenti a quell’area geografica evidenziano come anche in questo ambito si possono riverberare divisioni interne. Legate da un passato comune, queste repubbliche balcaniche esprimono nel cinema la propria identità nei confronti, soprattutto, di un pubblico internazionale che, in questo modo, riesce a essere informato su questioni del recente passato.

Successivamente, nella ricerca e nell’analisi di opere albanesi e jugoslave si sono evidenziati tratti comuni quali quelli dell’esperienza della guerra, della resistenza e della ricostruzione, strettamente collegati alla tematica dell’occupazione che hanno attraversato le due cinematografie dal loro sorgere e fino, soprattutto per quanto riguarda le repubbliche sorte dalla dissoluzione della ex-Jugoslavia, alle produzioni attuali.

La metodologia utilizzata può iscriversi nella cultura interpretativa contemporanea che tende verso la costruzione di una storia culturale del cinema. Attraverso un’organizzazione diacronica, i vari modelli filmici sono stati trattati sotto il profilo della critica stilistica e dall’analisi iconologica per quanto attiene all’estetica oltre all’approccio dello spatial turn e della contestualizzazione storico-sociale per quanto riguarda gli altri aspetti mediali.

Il cinema dei Balcani

Attualmente il territorio della Penisola Balcanica comprende le repubbliche sorte dalla disgregazione della Jugoslavia (Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Bosnia-Erzegovina) e l’Albania estendendosi alla Grecia, alla Turchia orientale, alla Romania e alla Bulgaria. Il termine deriva, infatti, dalla catena montuosa che attraversa in senso longitudinale la Bulgaria (il termine “balkan” in turco significa proprio “montagna”) e iniziò a essere utilizzato nell’Ottocento per designare la parte europea dell’Impero ottomano interessata dall’affiorare delle nuove entità statali sorte dalle lotte per l’indipendenza. Nel corso del XX secolo molti furono i cambiamenti dei confini e delle influenze politiche che portarono a esodi della popolazione civile e a interventi militari. Non a caso, nel pensiero comune occidentale il termine stesso “Balcani” evoca un clima di tensioni e conflitti[4].

Anche nel cinema si possono riverberare alcune delle divisioni interne che hanno portato alla cruenta costituzione delle nuove repubbliche balcaniche del Terzo Millennio. La rivista americana «Cineaste» nel 2007 ha realizzato un’intervista a diversi registi provenienti dall’intera area ai quali veniva chiesto se avesse senso parlare di cinema balcanico o se, piuttosto, fosse più opportuno parlare di singole cinematografie.

Il regista albanese Kujtim Çashku, tra i fondatori del Forum per il diritto dell’uomo in Albania e fondatore della Marubi Academy of Film and Multimedia a Tirana, fa riferimento quasi a una terra mitica, a «un luogo di storie e di narratori. Essi creano eventi, eroi, conflitti, situazioni. Il raccontare miti, leggende è caratteristico dei Balcani e si riflette sul cinema di questi luoghi»[5]. Lo sloveno Damjan Kozole è di altra opinione quando afferma che “cinema balcanico” è un termine geo-politico convenzionale mentre nella pratica ciascun popolo, pur avendo vari aspetti in comune, esprime una poetica e uno stile differenti. All’opposto, Goran Radovanović, serbo di Belgrado, sostiene che i Balcani si possano considerare «come singola area culturale, solo grazie al pregiudizio e alla visione distorta del pubblico occidentale contemporaneo»[6].

Sulla questione il macedone Milčo Mančevski, presidente della Giuria del Balkan Film Festival 2022 alla Casa del Cinema di Roma, manifesta una visione più internazionalista: «Sono contento che i Balcani abbiano una vetrina, anche se diffido del cinema “regionale”, che per me non esiste: ci sono solo buoni e cattivi film»[7].

Va rilevato che questi Paesi, che nella ex-Jugoslavia hanno vissuto un passato comune, nel cinema hanno trovato la possibilità di ricostruire parte della propria specifica storia facendone conoscere passaggi interessanti, attraverso il proprio punto di vista, al pubblico internazionale. All’interno di questa variegata produzione cinematografica si possono trovare sia cineasti della generazione che ha conosciuto il successo già durante il regime comunista, sia autori più giovani che stanno sperimentando una certa visibilità oltreconfine grazie alle varie rassegne, come il Balkan Film Festival, che rappresentano un ponte tra i Balcani e l’Italia[8].

Sicuramente l’aspetto linguistico costituisce ancora una seria difficoltà non solo nei confronti di un pubblico di appassionati ma anche degli studiosi che intendano perseguire questo tipo di ricerca in ambito accademico. Anche gli aspetti della distribuzione, nonostante la circolazione ormai massiva e talora open access di prodotti audiovisivi resa possibile dalle varie piattaforme digitali, pongono limiti oggettivi alla circolazione di queste opere spesso relegate al programma festivaliero. Ciononostante, «il cinema rappresenta una delle eccezioni alla marginalizzazione culturale e politica dei Balcani negli ultimi anni e costituisce uno dei pochi ambiti con cui la regione ottiene riconoscimenti all’estero»[9].

Un discorso a parte va fatto per alcuni autori accreditati nel contesto occidentale sin dagli anni Novanta quali Milčo Mančevski, Leone d’oro a Venezia con Prima della pioggia (Aim Productions, Noè Productions, Vardar Film, Macedonia, 1994, 113’),  Emir Kusturica che quattro anni dopo vinse il Leone d’Argento con Gatto nero, gatto bianco (CiBy 2000, Pandora Filmproduktion, Komuna, France 2 Cinéma, Jugoslavia, Francia, Germania, 1998, 120’) o Danis Tanović che con No Man’s Land (Noè Productions, Fabrica, Man’s Films, Bosnia-Erzegovina, Italia, Belgio, Regno Unito, 2001, 98’) fece incetta di premi tra cui a Cannes nel 2001, un Oscar e un Golden Globe nel 2002. In entrambi i casi, come si può notare, si è trattato comunque di co-produzioni internazionali: opere, pertanto, vocate sin dall’inizio a una certa distribuzione e, dunque, alla possibilità di essere accolte da parte di pubblico e critica al di fuori dei propri confini. Come rileva lo studio dell’Osservatorio Balcani, dopo il crollo del regime di Tito:

La difficile situazione economica porta all’emergere delle coproduzioni come naturale soluzione, che consente di raccogliere maggiori risorse finanziarie e condividere infrastrutture. Fenomeno raro ai tempi della guerra fredda, le coproduzioni diventano un prodotto tipico del cinema ex-jugoslavo dopo la fine delle guerre[10].

E, in effetti, se ci si sposta sul piano più generale dell’approccio ai media, nella ex-Jugoslavia, così come in altri Paesi appartenuti al blocco orientale:

Il decennio postcomunista è stato caratterizzato dai nuovi mercati della comunicazione. Inizialmente le ricette sono state molto simili: fine del monopolio statale, deregulation, soppressione della censura, privatizzazioni e apertura ai capitali stranieri[11].

La prima proiezione nei Balcani fu presentata il 6 giugno 1896 a Belgrado nel caffè At the golden cross nella centrale piazza Terazije. La Bosnia, in particolare Sarajevo, si caratterizza come un luogo del cinema sin dai tempi delle sue origini: i primi fotogrammi furono infatti proiettati il 27 luglio 1897 con la presentazione del cinematografo Lumière e nel primo decennio del Novecento sorsero due sale permanenti di un certo prestigio: l’Imperijal e l’Apolo. Negli stessi anni molti cineoperatori stranieri furono attratti dalle bellezze naturalistiche bosniache e successivamente si sviluppò il genere del documentario, che divenne utile anche a immortalare le visite dei reali europei[12].

            Tuttavia, nella ex-Jugoslavia l’industria cinematografica nasce con la costituzione del nuovo Stato socialista dopo la Seconda Guerra Mondiale anche al fine di trattare ripetutamente i temi della guerra ma soprattutto della resistenza dei partigiani del Maresciallo Tito, che tanto orgoglio nazionale aveva saputo destare nella sua popolazione multietnica[13]. I film prodotti avevano un taglio documentaristico ma anche epico, attento ai piccoli fatti di cronaca come ai grandi eventi storici tesi a evidenziare proprio l’eroismo di un popolo che aveva vinto l’occupazione nazista dando vita alla Repubblica.

A partire dal 1960 una nuova generazione di artisti, a questi temi, andò sostituendo una certa attenzione alla contemporaneità, costituita dal mondo socialista, e ai problemi dell’individuo anche al cospetto dell’ideologia, dando vita a una rinascita del cinema jugoslavo[14]. Tale nuovo orientamento nel cinema ha portato, a partire dal decennio successivo, alla nascita della corrente cosiddetta “Black wave” in cui:

al posto dell’eroismo dei partigiani, della felicità nel socialismo e della sua eroica costruzione, negli

anni Novanta si volevano raccontare storie di vita privata. Analogamente, dopo anni di linguaggio

allegorico e isolamento comunicativo, si sperava di godere di una totale libertà di espressione[15].

Tra le principali personalità del cinema jugoslavo, Emir Kusturica ha saputo affrontare la sua realtà sotto un profilo politico, sociale e di costume attraverso un approccio grottesco molto personale. Goran Paskaliević, invece, nasce come documentarista ma tratta questioni esistenziali attraverso vicende intrise di storia e leggenda come nel caso di Il tempo dei miracoli (Channel 4 Television Corporation, Radio Televizija Beograd, TRZ Singidunum, Jugoslavia, 1989, 93’) dove la situazione politica e sociale presenta venature di sacro e profano[16]. Il film rievoca un fatto risalente al 1945 quando, conclusasi la Seconda Guerra Mondiale, nel piccolo villaggio ortodosso nella campagna jugoslava di Vitanija i comunisti assumono il potere e iniziano la loro opera di rimozione del divino.

Anche l’Albania vanta un antico legame con il cinema, che precede addirittura la sua costituzione quale Stato indipendente, come ci ricorda Neritana Kraja nella sua sintetica ricostruzione della storia del cinema schipetaro:

Historia e kinemasë shqiptare lidhet me një kulturë të hershme, e cila lulëzoi qysh me lindjen e kinematografisë botërore. Jehona e vellezërve Lymier u përhap si një rrezatim i shpejtë i një arti në lindje e sipër edhe në Ballkan me anë të vëllezërve me origjinë shqiptare Manaki, të njohur si “Lymierët e Ballkanit”. Në vitin 1909 Kol Idromeno shfaqi për herë të parë një film në Shkodër. Më pas filmat e huaj të atyre viteve filluan të shfaqen në kinematë e qyteteve kryesore të Shqipërisë[17].

Il 1912 vede l’indipendenza dell’Albania dall’Impero ottomano, Stato che sarà ridimensionato nei propri confini dal Trattato internazionale di Londra del 1913 ma il cui popolo rimarrà a vivere in Grecia, in Serbia e in altri Stati slavi dove preesistevano insediamenti. Uno dei primi documenti cinematografici albanesi corrisponde con il primo alzabandiera del neonato Principato di Albania sotto la guida di Guglielmo di Wied, avvenuto il 7 marzo 1914 con l’arrivo del principe in nave a Durazzo.

La cinematografia nazionale schipetara si fa risalire, tuttavia, a un periodo quasi coevo con quella jugoslava con il corto Takim në Liqen (Appuntamento al lago, Mihallaq Mone, Tomorri Film, Albania, 1943, 8’) in quanto frutto di un cast interamente albanese. Negli anni precedenti l’Albania è stata comunque set di pellicole di produzione straniera, soprattutto italiana, incentrate sull’occupazione fascista. Anni in cui il governo italiano inizia anche a distribuire film e documentari nel Paese delle aquile a fini propagandistici, in quello che Vito Saracino definisce «l’uso del cinema nel tentativo fascista di italianizzazione dell’Albania»[18]. A ulteriore dimostrazione di quanto il governo di occupazione creda nella forza dell’apparato audiovisivo viene creata una sede dell’Istituto Luce proprio a Tirana[19].

Se dopo la rottura tra Enver Hoxha e il governo dell’ex-URSS politicamente l’Italia è avversa all’Albania, anche durante i decenni di isolamento la cultura italiana permea i confini albanesi dapprima attraverso la radio, poi con la televisione, sebbene in modo prevalentemente clandestino. Nei cinema albanesi i film italiani costituiscono un quinto del totale dei film stranieri, presenti comunque in numero limitato, distribuiti tra il 1950 e il 1990. In un regime che voleva mantenersi impenetrabile nei confronti della cultura occidentale, le pellicole accettate erano quelle legate al filone neorealista o degli eroi fantastici, oltre a tutte quelle opere volte a evidenziare la malvagità della società capitalistica. Nei film albanesi, invece, gli italiani erano i cattivi o quanto meno degli individui inaffidabili e spesso dediti al canto.

Ma all’influenza culturale italiana subentra talora quella della prestigiosa scuola cinematografica sovietica. Infatti, anche Hoxha, come accadde in precedenza nel periodo di occupazione fascista, assegnava al cinema una funzione strategica e il governo permetteva ai registi e ai tecnici ritenuti più validi di recarsi a Praga, Budapest e Mosca per formarsi[20]. Nel 1954 per girare il kolossal Skanderbeg, l’eroe albanese (Albafilm, Mosfi’lm, Albania, URSS, 158’), realizzato in ricordo delle gesta del condottiero che nel Quattrocento difese le terre d’Albania dall’invasore turco-ottomano, venne incaricato il regista sovietico Sergej Iosifovič Yutkevič, realizzando così una coproduzione tra i due Paesi. Lo stile sovietico ha impregnato le pellicole albanesi, come ben dimostra l’imperiosità della recitazione e dell’immagine degli uomini in divisa di Në fillim të verës (At the Beginning of Summer, EREBARA, Gezim, Albania, 1975, 100’), film prodotto dal Kinostudio Shqipëria e re[21] che ha dominato la scena veicolando gli ideali di matrice comunista.

Il quasi coevo Njeriu me top (The Man with the Cannon, GJIKA, Victor, Shqipëria e re, Albania, 1977, 86’) presenta un altro elemento caratteristico delle narrazioni cinematografiche albanesi, vale a dire le faide tra clan famigliari che si dipanano nei suoi territori ancora selvaggi parallelamente agli eventi storici. In questo caso toccati attraverso il soldato palermitano ospitato clandestinamente dalla famiglia di Mato (Timo Filoko) dopo la caduta dell’Italia fascista che trasforma il suo nome da Augusto in Agush.

Kthimi i ushtrisë së vdekur (The Return of the Dead Army, ANAGNOSTI, Dhimitër,Albfilm,Albania, 1989, 104’) con toni cupi traspone il romanzo piuttosto acclamato dello scrittore albanese Ismail Kadare Gjenerali i ushtrisë së vdekur (The General of the Dead Army, 1963)nel quale alla fine della Seconda Guerra Mondiale un colonnello italiano insieme a un prete ritornano in Albania alla ricerca delle ossa di un generale morto durante il conflitto.  

            Come si è visto, le tematiche della guerra, dell’occupazione e della resistenza rimangono il filo conduttore della produzione cinematografica dei due Paesi balcanici lungo il Novecento così come nei primi anni del Duemila, in cui si inseriscono anche gli aspetti della ricostruzione delle città e delle anime. È il caso del già citato No Man’s Land, ambientato nel 1993 durante la guerra serbo-bosniaca ma che esce da quello specifico contesto per lanciare un messaggio universale di denuncia sull’assurdità delle guerre. O di pellicole che trattano aspetti più intimi e familiari come espediente per raccontare, in fondo, le atrocità dei conflitti bellici, «grande ombra incombente sulla maggior parte delle storie»[22] e la durezza del contesto che rimane. Si possono ricordare, al proposito, Go West (IMANOVIĆ, Ahmed, Bosnia-Erzegovina, 2005, 97’), Il segreto di Esma (ŹBANIĆ, Jasmila, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Austria, Germania, 2006, 107’), lo statunitense Nella terra del sangue e del miele (JOLIE, Angelina, 2011, 127’) e Buon anno Sarajevo (BEGIĆ, Aida, Bosnia-Erzegovina, Germania, Francia, Turchia, 2012, 90’).

Il cinema esercita qui la sua funzione contro l’oblio e la rimozione del trauma. Kusturica riconosce nell’uomo l’inclinazione all’oblio poiché quest’ultimo, come una nube, passa davanti al sole a eclissare gli episodi più tristi della vita e i momenti di sofferenza[23]. La guerra lacera chi la vive e ricostruire spazi e persone distrutte è estremamente faticoso, come ricorda lo scrittore bosniaco Faruk Šehić:

Eravamo perduti nelle ceneri delle nostre case, in uno stato di choc permanente, abituati come

eravamo alla brutalità dello spettacolo. Eravamo come quelle figure frammentate che si vedono

in Guernica: esseri viventi che camminavano tra le macerie[24].  

            Nell’ambito di un progetto di ricerca condotto dall’Osservatorio Balcani e Caucaso nel 2007 sono state rivolte delle interviste semi-strutturate ai professionisti del settore appartenenti a cinque Paesi (Albania, Bulgaria, Croazia, Serbia e Bosnia-Erzegovina). I ricercatori hanno avuto la conferma di quanto il cinema fosse considerato un medium strategico usato dai regimi per educare le masse ai valori ispiratori quali la rivoluzione, il progresso, la nazione. Pertanto, sono state proprio le storie politiche dei singoli Paesi a favorire gli investimenti e la modernizzazione in tal senso[25]. Lo stesso sviluppo tecnologico ha accompagnato la produzione degli anni Duemila divenendo un fattore determinante per l’internazionalizzazione del cinema dell’intera area. Le interviste hanno anche lasciato affiorare:

nuovi condizionamenti nelle scelte tematiche dovuti alla necessità di vendere i film in Occidente

[e che] il nuovo pubblico europeo non sia interessato a film esistenziali ma si aspetti film sulla

convivenza interetnica, la guerra, i rom etc. [26].

Il legame tra cinema e guerra è già suggerito da André Bazin quando sostiene che le guerre hanno due finalità: una è la Storia, l’altra il cinema. Il reportage di guerra risponderebbe a esigenze psicologiche o morali e assurgerebbe a documento di inestimabile valore in quanto sarebbe in grado di soddisfare l’interesse dell’uomo verso «l’avvenimento unico, colto sul vivo, nell’istante stesso della sua creazione»[27]. Secondo il critico francese, la macchina da presa, così come le armi, è una forma della tecnologia che permette di assistere alla Storia mentre questa si sta svolgendo, quasi sempre attraverso le guerre, e in cui l’uomo vuole sentirsi coinvolto. Addirittura «l’operatore accompagna il bombardiere nella sua missione»[28].  E, non a caso, da un lato, Tanović prima di passare al cinema narrativo è stato reporter di guerra e «la guerra nei Balcani è stato il primo conflitto ampiamente riportato per immagini»[29].

Itinerario tra territori occupati

Il cinema dei territori occupati è spesso, a sua volta, un territorio mediale in cui si incrociano fonti documentali prodotte durante l’accadere degli eventi e sequenze finzionali girate secondo il pensiero, le tecniche, le emozioni e le conoscenze dei fatti al momento in cui queste vengono realizzate. Posto che nemmeno le immagini prodotte tramite il semplice scorrere degli eventi davanti alla videocamera corrispondono alla realtà, il cinema, in questo senso, si colloca sia come rievocazione e potente comunicazione di quei fatti sia come documento in grado di immortalare spazi e situazioni che, come in quel preciso momento, non si presenteranno mai più.

Il cinema balcanico più in generale si configura come un ibrido tra documentario e fiction per la mescolanza nel montaggio, come si è detto, ma ancora prima per l’uso della videocamera a mano e nella scelta di attori non professionisti[30]. Sfilate, parate, folle festanti in spazi urbani di colossali fattezze sono di solito la base del girato per un montaggio con finalità idealizzanti, drammatiche e talora propagandistiche di cui si sono serviti i popoli sottomessi come le forze occupanti.

Nel recente La macchina delle immagini di Alfredo C. (Istituto Luce-Cinecittà, Italia, 2021, 76’) Roland Sejko, regista di origini albanesi e direttore della redazione editoriale dell’archivio storico Luce, affronta le narrazioni tra l’Italia e l’Albania degli italiani rimasti in Albania dopo il 1945. Questo fu uno dei pochi collegamenti con l’Occidente rimasti in vita durante la dittatura fino al 1991 quando le navi colme di albanesi in fuga attraccarono nei porti dell’Adriatico. La vita di questi italiani rimase in un limbo poiché non furono prigionieri ma nemmeno uomini liberi. Uno di questi, il cineoperatore Alfredo Cecchetti (Pietro De Silva), da cui il titolo del film, si è trovato così a raccontare due differenti e opposte dittature: il fascismo prima, sia a Roma che durante le celebrazioni della potenza occupante a Tirana, e il comunismo poi.

Nel film particolare interesse è rivestito dal magazzino, realizzato in studio a Cinecittà, luogo della custodia delle scatole contenenti le pellicole e quindi della ricostruzione dei ricordi poiché, come racconta Sejko, attraverso la macchina da presa si fissa sulla pellicola e poi si rivede un pezzo di Storia. La moviola inceppata e dimenticata in un angolo è la metafora dello sforzo necessario a ricordare le cose vissute, per capire se effettivamente sono andate in quel modo, introducendo la possibilità di relativizzare offerta dallo sguardo a posteriori sui fatti storici. Alfredo C. è incaricato di immortalare la massa come fenomeno legato al potere e la responsabilità collettiva delle persone. Dapprima fedele operatore del trionfo del dittatore italiano, si è trovato costretto a rimanere in Albania e a lavorare per la propaganda comunista di Hoxha, condizione che gli ha imposto un approccio di totale distacco dall’oggetto del girato attraverso una registrazione meccanica che si contrappone, pertanto, a quella “costruzione di sogni” obiettivo delle immagini prodotte[31].

In Albania, il paese di fronte (SEJKO, Roland, BRESCIA, Mauro, Istituto Luce, Disney Channel Italy, Italia, 2008, 91’), attraverso bellissime immagini di repertorio e il contributo dello storico Roberto Morozzo Della Rocca e di altri accreditati testimoni, quali Carlo Azeglio Ciampi, si ricostruisce la storia dell’Albania dalla sua indipendenza alla caduta del comunismo evidenziandone l’isolamento nonostante la vicinanza geografica con l’Italia. In uno degli spezzoni dell’Istituto Luce si vede, ad esempio, il matrimonio di re Zog con Geraldina a cui partecipò Galeazzo Ciano come testimone e in cui gli “amici italiani” invitati al corteo nuziale sfilarono per la capitale albanese con piglio marziale. Altri filmati di valore storico riguardano l’arrivo delle varie personalità italiane in Albania ma anche la parata per il giuramento della neonata Guardia Reale Albanese presso la Caserma dei Granatieri di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. La reciprocità impregna i rapporti italo-albanesi e la produzione di immagini del tempo è piuttosto intensa, in quanto «si palesa il notevole coinvolgimento italiano in questa “occupazione culturale”»[32].

Un momento particolarmente celebrato nel cinema albanese è la resistenza partigiana. Në fillim të verës si svolge nel 1942 quando, in una città costiera, dei clandestini con l’aiuto di un tenente che lavorava a contatto con il contingente italiano pianificarono di far esplodere un deposito di munizioni militari. Parallelamente si svolge la vita di un padre e di una figlia riluttanti a lasciarsi coinvolgere dal comunismo. La sequenza iniziale è un mare impetuoso e cupo che si infrange sulle rocce della costa di Valona, città simbolo dell’occupazione italiana sia per la disfatta del 1920 sia per l’arrivo delle truppe fasciste nell’aprile 1939, a cui segue il volo degli uccelli. Il titolo, tradotto letteralmente in “all’inizio dell’estate”, allude alla conclusione del periodo freddo e buio dell’occupazione e sottende al desiderio di liberazione dall’occupante che, proprio come l’onda del mare, non si ferma mai. Nelle successive riprese in interni si vede l’ufficio dove il tenente italiano discute la situazione con i suoi commilitoni con suggestive immagini affisse alle pareti (il ritratto del Duce, quello del re, un bassorilievo recante la Lupa capitolina): i simboli del tempo in cui la vicenda si svolge rilessi attraverso il filtro del comunismo. Anche in questo caso, come in Njeriu me top,tuttigli attori sono albanesi (e parlano in lingua albanese) anche quando il personaggio interpretato è italiano mentre il tipo di recitazione imponente e ieratica richiama l’impostazione di tipo sovietico. La resistenza, quindi, è una storia raccontata dal punto di vista degli invasi e non degli invasori e, come già ricordato, il modello cinematografico prevalente è costituito dalla scuola sovietica.

Sutjeska, la quinta offensiva (DELIĆ, Stipe, Bosna Film, FRZ, Sutjeska Film, Jugoslavia, 1973, 130’) è stato girato nel 1972 per celebrare i trent’anni dalla sanguinosa ed eroica battaglia partigiana guidata da Tito contro le truppe tedesche sulle montagne della Bosnia con attori internazionali di peso come Richard Burton e Irene Papas. La mitizzazione della Resistenza jugoslava era stata già centrale nel kolossal Kozara – L’ultimo comando (BULAJIĆ, Veljko, Bosna Film, Jugoslavia, 1962, 124’). Di questa pellicola colpisce particolarmente una scena in cui si vedono non solo i momenti successivi alla battaglia, vale a dire i soldati morti e gli edifici distrutti, ma il lavoro delle donne nel lavare e stendere le garze per curare i feriti. Raramente, infatti, l’attenzione della ribalta si rivolge interamente alla parte off della guerra: quella che non combatte direttamente ma che ne subisce i contraccolpi o che cerca di lenire il dolore.  

Underground (KUSTURICA, Emir, Bulgaria, Francia, Repubblica Ceca, Germania, Jugoslavia, Ungheria, CiBy 2000, 1995, 171’) attraversa la storia della Jugoslavia dalla Seconda Guerra Mondiale al trionfo del Titoismo con un approccio spiccatamente grottesco. Anche se per l’arrivo dei nazisti e l’occupazione di Zagabria e poi di Belgrado il 6 aprile 1941 Kusturica utilizza immagini di repertorio (colorate), il bombardamento della città è vissuto dai suoi abitanti in modo surreale così come la parodia dei tedeschi occupanti è decisamente onirica con sparatorie tipiche dei gangster movie e visioni felliniane del transatlantico Rex.

Dello stesso autore, Papà… è in viaggio d’affari (Centar Film, Forum Sarajevo, Televizija Sarajevo, Jugoslavia, 1985, 136’) è ambientato in un momento particolarmente incerto della Jugoslavia determinato dalla rottura tra Tito e Stalin nel quale la libertà di parola era messa pesantemente a repentaglio anche all’interno di conversazioni private. La storia è raccontata in modo lievemente ironico attraverso le parole del figlio di Mesa (Predrag ‘Miki’ Manojlović), Malik (Moreno De Bartoli), un bimbo di 8 anni. L’uomo intesse una relazione extraconiugale con un’insegnante di ginnastica di cui è invaghito anche il cognato, segretario del Partito; da Sarajevo viene inviato ai lavori forzati in una miniera di carbone a Lipnica e successivamente per la costruzione di una centrale idroelettrica a Zvornik, un remoto centro sulla Drina ai confini con la Serbia, dove però la famiglia si riunisce prima di poter rientrare a Sarajevo nel 1952.

Il territorio è completamente occupato dal regime e dalle sue maglie, dalle infrastrutture in costruzione che dovevano celebrare la potenza dello Stato e dalla fabbrica dell’oppressione così come tutto il film è pervaso dalla presenza del dittatore e del suo apparato (istruzione scolastica, celebrazioni, filmati diffusi attraverso i media, l’uso della parola “compagno” prima del nome ecc.). Quando non si vedono più i vagoni carichi di carbone scorrere sui binari, sullo schermo ne permane la loro ombra e, come sostiene Antonio Costa, «la silhouette si rivela un ottimo strumento per fornire in modo sintetico e immediato i tratti essenziali di un carattere»[33].

Fare riferimento alla questione dei campi di lavoro forzato nei Paesi ex-comunisti è per Kusturica motivo per riportare in luce un dramma realmente avvenuto, come riferisce ricordando la commozione provata alla prima proiezione appena concluse le riprese di Papà… è in viaggio d’affari:«dopo la morte di Tito, agli ex deportati di Goli Otok era stata, fino a un certo punto, restituita la dignità. Tuttavia, quel crimine non era stato mai tema o motivo di una riflessione umanistica»[34].

Per girare Prima della pioggia Mančevski torna in Macedonia da New York, ha dovuto calarsi nuovamente nella cultura delle origini pur senza voler essere la “voce cinematografica” della Macedonia. Riguardo a questa significativa esperienza il regista dichiara: «Ci sono due modi per innovare: spezzare la narrativa, dividendo la storia in tre parti o farla raccontare da punti di vista diversi»[35]. La struttura circolare del film, infatti, è divisa in tre capitoli (Parole, Volti, Immagini) in cui vengono presentate le tradizioni culturali e religiose macedoni. La terza parte comincia con una panoramica dall’alto dapprima dei crepacci con il fiume che scorre in mezzo e poi con il volo d’uccello che inizia a comprendere le architetture socialiste di Skopje. L’aereo atterra e Alexander (Rade Serbedzija), che lavora come fotografo a Londra da 16 anni, prosegue il suo viaggio con un autobus scalcinato verso il suo villaggio natale sul Lago di Ohrid.

Purtroppo, però, la guerra iniziata da ormai due anni ha mutato la città: essa mostra una certa esuberanza occidentale ma i carrarmati delle Nazioni Unite girano costantemente nelle strade facendo percepire il loro presidio e lo stato di occupazione. La guerra ha intossicato anche la vita del villaggio contadino perché ha lasciato dietro di sé la distruzione delle case e la familiarità con le armi, utilizzate con estrema facilità anche dai bambini come se fossero giocattoli. La guerra occupa la vita e gli spazi di chi rimane perché l’odio e il sospetto hanno mutato radicalmente le relazioni tra concittadini.  Come ricorda Dino Murtic a proposito della rappresentazione e delle mutazioni dell’immagine urbana nel cinema jugoslavo: «The last war in the territory once known as Yugoslavia happened in Macedonia in 2001. The political elites of majority Macedonians and minority Albanians found it necessary to resolve their political dispute through an open war»[36].

Mančevski ha dichiarato in varie occasioni di non aver voluto girare un film politico e di non voler fornire informazioni o spiegazioni su una guerra di cui non mostra alcuna scena esplicita ma fa continui riferimenti[37]. Lo scollamento tra la percezione del prodotto realizzato e le dichiarazioni del regista è egregiamente sintetizzato da Sean Homer:

Mančevski’s films, I contend, struggle with the “founding trauma” of national identity, that is to say, with the creation of the modern Macedonian state out of the ruins of the Ottoman Empire at the beginning of the twentieth century and more recently the expulsion of the Slavic population from Northern Greece after the end of the Second World War. Furthermore, his films deploy elements of a national imaginary to construct a unique “timeless” and “mythical” Macedonian national identity[38].

 Gli elementi storici della Macedonia mostrati nel film sottendono, in fondo, i motivi che hanno portato ai conflitti nella ex-Jugoslavia degli anni Novanta. L’effetto della dissoluzione dell’URSS e del crollo dei regimi comunisti nei Paesi satelliti, da un lato, ha posto fine alla suddivisione del mondo in due grandi blocchi e, dall’altro, ha rianimato i precedenti impulsi nazionalisti e indipendentisti che hanno generato le guerre in parte dell’area balcanica. Anche la notoria accusa a Kusturica di aver usato Underground per fare propaganda ai serbi tradendo, così, le sue origini sarajevesi[39] ha evidenziato le frizioni etniche esasperate del conflitto.

Come si è visto sin dall’inizio dell’articolo, già la definizione stessa di cinema balcanico presenta una diversità di punti di vista poiché espressione di una complessità storica, geografica e culturale, come egregiamente riassunto da Iordanova nel suo importante lavoro Cinema of Flames: Balkan Film, Culture, and the Media a proposito dell’ipotesi di una narrativa unificata non solo sotto l’aspetto della produzione ma anche nella veicolazione e nella decodifica della propria identità attraverso il cinema:

To work primarily with material from Balkan history means becoming aware of the existence of multiple points of view. It often means becoming sceptical about the possibility of a unified metanarrative that would tell the history of the region in a way that was acceptable to all of its actors. To seek consensus on many details of Balkan history is difficult, as details are interpreted differently across the region[40].

In conclusione, il cinema per resistere e ricordare

Il Kino Apolo è stata la prima sala nella città di Sarajevo e divenne simbolo di rinascita ma soprattutto di resistenza durante l’assedio dei serbi quando con il collettivo First War Cinema Apollo[41], partecipato dagli studenti dell’Academy of Performing Arts, ha dato vita a un’iniziativa culturale documentata dalla mostra fotografica ospitata dal Sarajevo Film Festival nell’agosto 2023. Gli spettatori entravano attraverso un varco aperto nel muro che circondava il perimetro dell’Accademia, attraversavano un piccolo cortile fino alla porta sul retro dell’edificio e scendevano una ripida rampa di scale, «as their eyes adjusted to the darkness, a faint light glowed in the distance»[42].  

L’importanza dell’arte, e quindi del cinema, nei momenti di lotta e sofferenza è sottolineata da Mirsad Purivatra, co-fondatore e direttore del Sarajevo Film Festival: «Mentre ci chiedevamo come sopravvivere abbiamo capito che l’essere umano ha bisogno non solo di cibo ma anche di cultura, di arte, di altre cose»[43]. A cui fanno eco i ricercatori Andrea Caira e Arianna Cavigioli quando sostengono che «l’arte, intesa quale tassello organico alla vita sociale, era diventata appendice della sopravvivenza, nonché motore creativo della resistenza»[44]. Sotto gli attacchi dei cecchini gli artisti hanno avuto un ruolo essenziale nella sopravvivenza sia fisica che mentale e l’arte nella Sarajevo assediata era così divenuta una necessità, una forma di resistenza che ha contrapposto la bellezza alla brutalità della distruzione e della guerra.

Come si è visto, il cinema ha contribuito a mantenere viva la memoria di popoli che hanno attraverso la via del conflitto per affermare le proprie identità culturali, come nel caso della ex-Jugoslavia, oppure a narrare le variegate relazioni e influenze come nel caso dell’Albania con l’Italia o con l’ex-Unione Sovietica. La salvaguardia del punto di vista dei registi balcanici è di estrema importanza per la comunicazione della specificità delle proprie narrazioni, poiché, se durante i regimi comunisti lo sguardo di questi artisti era totalmente puro, negli anni Duemila è contaminato dal gusto occidentale, nel caso delle co-produzioni ma più in generale per aderire alle preferenze del pubblico. 

I ricercatori del progetto ViCTOR-E, condotto tra il 2019 e il 2022, riguardo alle immagini della ricostruzione nel secondo dopoguerra in Europa sembrano attribuire al fotogramma, sia nella sua dimensione fisica che in quella smaterializzata, un fondamentale ruolo nel raccontare quella particolare dimensione che ha attraversato il secolo scorso:

Frames of reconstruction are then images of and from the European postwar era and are connected to this historical context in multiple ways; as typical products of that time they are themselves contributions to the architectural, political, and social process of reconstruction that they represent and document[45].

Infine, il frequente utilizzo di fonti documentali nel cinema di storia va nella direzione della valorizzazione del patrimonio degli archivi e rende particolarmente interessante una forma ibrida tra immagini realizzate durante l’evento storico e produzione finzionale a posteriori, chiamando lo spettatore a una duplice lettura legata al differente contesto di produzione. Vale la pena ricordare quanto in questa epoca siano proprio le immagini in movimento e non le parole ad avere una funzione persuasiva[46].

Riferimenti bibliografici

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Nota biografica

Ornella Castiglione è docente e fotografa, vive e lavora a Milano e attualmente insegna Cinema e turismo all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Dal 2010 tiene insegnamenti di ambito cinematografico e artistico e si occupa della formazione degli insegnanti in vari atenei. I suoi interessi di ricerca vertono su: Rappresentazione dello spazio urbano nelle arti visive; Figure della demolizione; Confini; Cinema e territorio; Didattica dell’arte e del cinema. Pubblicazioni al link: https://boa.unimib.it/browse?authority=rp08071&type=author.

ornella.castiglione@unimib.it


[1] BEGO, Fabio, «The Vlora Conflict from a Trans-Adriatic Perspective: History, Myth and Ideology», in AA.VV., Myths and Mythical Spaces Conditions and Challenges for History Textbooks in Albania and South-Eastern Europe, Göttingen, V&R Unipress, 2017, p. 109.

[2] ABRAHAMS, Fred C., Modern Albania: From Dictatorship to Democracy in Europe, Ney York, NYU Press, 2015, p. xi.

[3] GRITTI, Roberto, Postcomunismo e media, Sesto San Giovanni, Meltemi, 2001, p. 40.

[4] «Balcani», in Treccani. Enciclopedia on line, URL: < https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/ > [consultato il 1° ottobre 2024].

[5] BADON, Silvia, «Ciak Balcanico: ricerca sulla produzione cinematografica in Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia e Macedonia», in Studi Urbinati Scienze Umane e Sociali, 2013, pp. 269-288. URL: < https://journals.uniurb.it/index.php/studi-B/article/view/203/195 > [consultato il 1° ottobre 2024], p. 269.

[6] Ibidem.

[7] BATTOCLETTI, Cristina, «Il cinema balcanico non esiste: parola di Milco Mancevski», in Il sole 24 ore, 28 novembre 2022. URL: < https://cristinabattocletti.blog.ilsole24ore.com/2022/11/28/il-cinema-balcanico-non-esiste-parola-di-milco-mancevski/?refresh_ce=1 > [consultato il 1° ottobre 2024].

[8] Cfr. Balkan Film Festival, URL: < https://www.occhiobluannacenerinibova.com/category/cinema/festival/ > [consultato il 1° ottobre 2024].

[9] CHIODI, Luisa, DIOLI, Irene, (a cura di), Il mestiere del cinema nel Balcani. Storia di un’industria e dei suoi protagonisti dagli anni Settanta ad oggi, Osservatorio Balcani e Caucaso, 2009 [ed. or.  Archivio Trentino – Rivista di studi sull’età moderna e contemporanea del Museo Storico in Trento, n. 2, 2008], p. 9.

[10] Ibidem, p. 26.

[11] GRITTI, Roberto, op. cit., p. 10.

[12] VERTOVEC, Marco, Sarajevo e la Bosnia Erzegovina, Udine, Odòs, 2019, p. 59.

[13] CAIRA, Andrea, CAVIGIOLI, Arianna, La resistenza oltre le armi. Sarajevo 1992-1996, Milano, Mimesis, 2021, p. 21.

[14] RONDOLINO, Gianni, Storia del cinema, Torino, Utet, 2000, p. 445 e p. 590.

[15] CHIODI, Luisa, DIOLI, Irene, (a cura di), op. cit., p. 11.

[16] RONDOLINO, Gianni, op.cit., p. 722.

[17] KRAJA, Neritana, «Historia e kinemasë shqiptare», in CRI online Shqip URL: < https://albanian.cri.cn/2023/05/17/VIDEFlILBevqvo5xWnW2wG1d230517.shtml> [consultato il 17 gennaio 2025].

La storia del cinema albanese è legata a una cultura antica, fiorita fin dalla nascita della cinematografia mondiale. L’eco dei fratelli Lumière si diffuse come una rapida irradiazione di un’arte in Oriente e anche nei Balcani attraverso i fratelli di origine albanese Manaki, conosciuti come i “Lumière dei Balcani”. Nel 1909, il colonnello Idromeno mostrò per la prima volta un film a Scutari. Poi i film stranieri di quegli anni cominciarono ad essere proiettati nei cinema delle principali città dell’Albania [traduzione effettuata con Google].

[18] SARACINO, Vito, «Il Kinostudio e Il Cinema Albanese All’Interno Del Mosaico Della Settima Arte in Europa», in Giornata della Ricerca 2021 del Dipartimento di Scienze della Formazione, 11, 2023, pp. 149-164, URL: < https://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2023/08/gdr2021-vol2.pdf > [consultato il 9 gennaio 2025], p. 149.

[19] Ibidem, p. 150.

[20] SARACINO, Vito, Ciao Shqipëria! Il secolo dei media nei rapporti culturali italo-albanesi, Nardò, Besa Muci, Nardò pp. 125-126.

[21] Centro Nazionale di Cinematografia istituito nel 1947 dal Consiglio dei Ministri albanese.

[22] BADON, Silvia, op. cit., p. 287.

[23] KUSTURICA, Emir, Dove sono in questa storia, Milano, Feltrinelli, 2011.

[24] ŠEHIĆ, Faruk, Il mio fiume, Milano, Mimesis, 2017, p. 197.

[25] CHIODI, Luisa, DIOLI, Irene, (a cura di), op. cit., p. 9.

[26] Ibidem, p. 11.

[27] BAZIN, André, Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 2004, p. 21.

[28] Ibidem, p. 22.

[29] BATTOCLETTI, Cristina, op. cit.

[30] Ibidem.

[31] Conversazione con Roland Sejko, Premio David di Donatello 2022 – Accademia del Cinema Italiano, a cura di Raffaella Giancristofaro, URL: < https://www.youtube.com/watch?v=OyueMXyhEt0 > [consultato l’8 ottobre 2024].

[32] SARACINO, Vito, Ciao Shqipëria! Il secolo dei media nei rapporti culturali italo-albanesi, op. cit., p. 68.

[33] COSTA, Antonio, Il richiamo dell’ombra. Il cinema e l’altro volto del visibile, Torino, Einaudi, 2020, p. 8.

[34] KUSTURICA, Emir, op. cit.

[35] BATTOCLETTI, Cristina, op. cit.

[36] MURTIC, Dino, Post-Yugoslav Cinema Towards a Cosmopolitan Imagining, Londra, Palgrave Macmillan, 2015, p. 2.

[37] BADON, Silvia, op. cit, pp. 285-286.

[38] HOMER, Sean, «The Founding Trauma of National Identity in the Films of Milčo Mančevski», in Croatian Political Science Review, 54, 1-2/2017, p. 94, URL: < https://hrcak.srce.hr/file/270262 > [consultato il 18 ottobre 2024].

[39] IORDANOVA, Dina, Cinema of Flames: Balkan Film, Culture, and the Media, Londra,Bloomsbury Publishing, British Film Institute, 2001, p. 111.

[40] Ibidem, p. 89.

[41] Per maggiori informazioni sull’iniziativa cfr. URL: < https://sarajevocityoffilm.ba/first-war-cinema-apollo/ > [consultato il 3 ottobre 2024].

[42] VOURLIAS, Cristopher, «Remembering the Rebel, Underground Movie Theater That Gave Hope to Wartime Sarajevo: ‘The Spirit of Cinema Would Keep Us Alive’», in Variety, 15 agosto 2023, URL: < https://variety.com/2023/film/global/sarajevo-film-festival-apollo-war-cinema-1235695131/ > [consultato il 3 ottobre 2024].

[43] PICCINO, Cristina, «Sarajevo, l’energia delle immagini contro la guerra», in Il Manifesto, 17 agosto 2023, URL: < https://ilmanifesto.it/sarajevo-lenergia-delle-immagini-come-antidoto-contro-la-guerra > [consultato il 3 ottobre 2024].

[44] CAIRA, Andrea, CAVIGIOLI, Arianna, op. cit., p. 89.

[45] ČESÁLKOVÁ, Lucie, et al., Non-Fiction Cinema in Postwar Europe: Visual Culture and the Reconstruction of Public Space, Amsterdam, AUP Press, 2024, pp. 21–22.

[46] IORDANOVA, Dina, op. cit., p. 5.

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